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ALFREDO PIRRI PDF Stampa

Tempo fa parlammo delle problematiche dell’arte in generale. Ora riprendiamo il dialogo per addentrarci nella specificità del tuo lavoro. Il manufatto artistico deve essere nutrito dall’ideologia?

Non può essere inteso solo come un contenitore di idee. L’opera è un fatto ideologico in quanto si pone il problema del potere, cioè della sua autorevolezza nella realtà e della sua capacità di perpetuarsi nel tempo.

 

Riesci a tradurre nell’opera, con sufficiente chiarezza, le tue intenzioni?

Negli ultimi tempi mi accade spesso di usare le parole e ho deciso di essere il più chiaro possibile. Con esse cerco di riassumere, di portare all’essenza quello che penso e sento. Naturalmente nel costruire l’opera non sono altrettanto chiaro, ma di questo sono contento.

 

Le elaborazioni sono anche frutto di riflessioni razionali?

...Come molti altri tipi di elaborazioni culturali. Quando mi capita di fermare il lavoro perché non riesco a formalizzarlo, anche l’elaborazione si ferma. In quei momenti penso di potermi dedicare maggiormente alla riflessione e alla previsione di lavori, ma mi accorgo che è soltanto un’illusione. Se dovessi fare un resoconto, direi che è tempo perso. Credo, invece, che l’elaborazione di un’opera sia il risultato di una dinamica evolutiva che non si dovrebbe mai arrestare. L’aspetto razionale fa parte di noi, della pratica quotidiana. So che è una banalità dirlo, ma nella vita di tutti i giorni usiamo la razionalità come uno strumento di interrogazione quasi crudele che ci dà modo di operare.

 

La forma è sempre soggetta all’analisi?

Spesso, più che per il risultato di analisi specifiche, è esplicita; è frutto di intuizioni immediate. Con ciò non voglio dire che l’intuizione sia qualcosa che ci precipita addosso a nostra insaputa. L’opera è il risultato di una dinamica permanente. Quindi, viviamo continuamente in attesa di una intuizione e talvolta arriva. Questo è il gesto creativo, l’atto fondativo dell’opera. Grazie al lavoro continuo di interrogazione, si sviluppa la forma. Ciò che accade tra il fatto intuitivo e quello definitivo è qualcosa di spurio, difficile da analizzare, da raccontare. Nel mio caso alla fine del processo cerco di tornare sui miei passi in modo che la forma definitiva coincida, quanto più possibile, con l’intuizione originaria. Il momento emozionale e quello analitico si integrano e accompagnano la sua definizione. Se pensiamo alla razionalità come a una fonte di domande, è essa che ci spinge a operare. Non so se ci riesco, ma a me interessa fare del pensiero razionale qualcosa di sensibile.

 

In essa trovano soluzione i problemi costruttivo-percettivi?

Questi problemi sono sempre parte fondamentale di un’opera, anche se con la pratica essi diventano familiari. Poi c’è la questione, teoricamente interessante, di cosa debba significare “costruttivo”. Grazie anche agli incontri con gli amici filosofi, mi sono reso conto di quanto sia importante pensare al fattore compositivo piuttosto che a quello costruttivo, intendendo per “compositivo” l’elemento che eleva la forma dalla contingenza per collocarla in una dimensione narrativa autonoma; per “costruttivo” qualcosa di meccanico che mantiene la forma vincolata alla sua essenza reale.

 

L’opera è ideata pure in funzione dello spazio espositivo?

Solo in qualche caso l’ho pensata espressamente per il luogo che l’ha accolta. Mi piacciono le opere autonome; semmai faccio uno sforzo di ambientazione. Nel Museo di Palazzo delle Papesse a Siena esposi un lavoro che anticipava l’idea di una biblioteca dedicata alla poesia italiana contemporanea. L’opera sembrava troppo piccola per una stanza completamente vuota, anche se l’ho caricata di segni e di senso dipingendola di grigio, dagli infissi al pavimento, al soffitto. Eppure risultò ideale per lo spazio che l’ospitava, pur restando “straniera”. Quando abbiamo un ospite in casa non gli chiediamo di vestirsi come noi, né di avere i nostri stessi gusti alimentari. Lo accogliamo cercando di metterlo a suo agio e gli lasciamo la sua identità.

 

Anche se usi i materiali del nostro tempo, il procedimento per arrivare all’opera può essere considerato “classico”?

Mi capita spesso di usare materiali o procedimenti legati all’attualità. Certe sculture hanno avuto una lunga fase di organizzazione e di progettazione in cui mi è stato utile il computer. La cosa che mi interessa è poter usare senza impedimenti tutti i materiali, moderni o antichi (la pittura, l’acquarello e simili), significativi ai fini della forma e non dei mezzi in sé. Mi interessa realizzare delle opere in cui alla fine il materiale sia indifferente, cioè non sia esso a raccontarci qualcosa, ma la forma nella sua dimensione finale.

 

La sperimentazione che caratterizza il tuo lavoro è sempre legata alla manualità?

È un altro aspetto interessante. Ogni volta che inizio un lavoro non so mai dove mi porterà. A volte ho lo studio pieno di materiali che non uso più da anni di cui vorrei liberarmi: idee appena abbozzate o mezzi tecnici. Questo perché ciascuna opera ha una sua narrazione dinamica. Quindi, la sperimentazione di tecniche e di come esse riescono a raffigurare quello che ho in testa è una cosa che mi prende tanto tempo. Mi accade di doverne usare certe di cui non sono esperto e di doverle sperimentare a lungo prima di raggiungere un risultato accettabile. Non voglio pensare all’opera come all’esercizio reiterato di un vocabolario, ma come a un punto originale che sia contemporaneamente di arrivo e di partenza. Anche l’aspetto teorico per me è sperimentale. Perciò non riesco ad immaginare movimenti artistici ideali come semplici formule da applicare.

 

Quindi, l’investigazione che conduci non è solo tecnica...

Esatto. La tecnica è un fatto importante. Mi riporta alla dimensione “corporale”, manuale, che mi permette di vivere in maniera corretta il rapporto con le idee. Essa è concepita in modo molto più complesso ed elaborato di quanto non fosse in passato la visione artigianale. Allo stesso tempo c’è qualcosa che tende a riportarmi da un lato ad una dimensione puramente ideale, dall’altro a una posizione di esecutore altamente esperto di tecniche artigianali ormai in disuso. In questa contrapposizione io non saprei dove collocarmi. Comunque, mi sento piuttosto orientato verso la materia ben elaborata, utile a costruire un racconto visivo autonomo.

 

È un cammino verso la dematerializzazione del mezzo?

La dematerializzazione non mi interessa. Anzi, spesso i miei lavori hanno una materia ben evidente. Certo, il risultato finale dell’opera stessa. Potrei parlare del procedimento in cui  da una parte c’è la messa in scena della materia, dall’altra la sua scomparsa. Credo che la sintesi della forma sia possibile solo se abbiamo presente che non si parte da essa, ma da un mezzo più materiale. In questo senso la dematerializzazione non è un punto di partenza, ma semplicemente un transito.

 

Qual è il soggetto che cerchi di definire al di là della forma?

Quella della non-forma, cioè il suo essere imprendibile. Mi spiego: se non avessimo una forma capace di raccontarci l’informe, ne avremmo una che non saprebbe raccontare se stessa, né altro; mentre, per come la intendo io, deve avere la capacità e la necessità di porsi al servizio dell’aperto pur mostrandosi come qualcosa di concluso.

 

Tendi a creare un’immagine aniconica depurata dalle forme del reale, ma capace di evocare la presenza spirituale dell’uomo?

Le forme intorno alle quali lavoro normalmente non hanno un’origine figurativa, però mi interessa molto metterle in relazione con qualcosa di iconico come, per esempio, il corpo dello spettatore e il suo punto di vista. Cerco di evocare una presenza umana (anche se invisibile) all’interno di forme, sia attraverso tracce di materiali, che di esperienze.

 

La ricerca sul rapporto forma-colore-luce non ha confini?

Il mio lavoro è un dialogo tra ciò che ha dei confini e ciò che non li ha. La luce e il colore per me sono dei fattori in continua espansione e la forma è qualcosa che si sovrappone, cerca di delimitare i bordi. La pittura, per esempio, è un tema molto presente. Il rapporto tra colore proiettato e colore solido è visto come un tentativo di porre dei confini a qualcosa che sarebbe destinato ad espandersi ricoprendo il circostante. Tutto il lavoro è uno scontro tra queste energie o, meglio, una sintesi.

 

Nel tuo percorso non rettilineo, perché la maschera di ieri e i suoi ritorni?

In fondo la pittura è  una maschera e la sua storia una mascherata. È la tela stessa su cui l’artista si preoccupa di dipingere. Per me ha rappresentato una spoglia umana dalla quale far emergere il colore, la pittura. Io l’ho usata come una coppa in cui versare un liquido colorato, con delle fessure, delle perdite. Una specie di allegoria dell’incapacità a riempirsi, a farsi calice attivo. Più che di ritorni, parlerei di ricorrenze. Quando ho esposto lavori basati sulla maschera, si è sempre trattato dello stesso lavoro. In occasione del progetto “Volume!” le maschere erano posizionate in maniera da assumere quasi una dimensione di foresta. Bisogna pensare all’origine latina della parola che rimanda a un bruco che diventerà farfalla.  Ha in sé l’idea di potenza, di sviluppo. A me piace pensare alla maschera come a un dato raffigurativo molto semplice, legato al volto; come a un oggetto augurale con delle potenzialità da sviluppare in futuro in una nuova arte. La maschera nella tradizione romana è definita larva e porta in sé l’idea della nuova vita, ma anche della morte. Quando moriva qualcuno, i partecipanti al funerale si ricoprivano il volto con una maschera raffigurante il morto e quello fra gli ospiti che gli somigliava di più per dimensioni corporali era incaricato di tenere il discorso funebre. Era come se il morto tornasse a parlare, ma dava anche una raffigurazione nuova di sé, dicendo cose che da vivo non avrebbe mai confessato. Nella maschera c’è una doppia identità. Di essa mi interessa il punto limite che accoglie la pittura, la quale da materia morta si fa vivente.

 

Perciò è il colore a rendere espressivo il suo vero volto.

Non ho mai fatto lavori in cui la maschera è autosufficiente. L’ho sempre associata a un fatto cromatico.

 

C’è affinità tra soggettività del volto e oggettività delle forme primarie?

Il volto è una forma in cui le due polarità si riassumono. C’è una similitudine tra la sua forma e la struttura geometrica che uso, che per me è essa stessa una mascheratura, qualcosa che si pone a coprire la realtà luminosa emanata dal colore sulla parete. Talvolta il volto appare nei suoi caratteri veritieri, a tradire l’origine della dimensione geometrica. Anzi, mai ho modellato un volto in maniera realistica. Sempre l’idea del volto si è avvicinata a quella di una maschera neutra priva di espressione, misteriosa com’è intesa nella tradizione teatrale.

 

Vuoi realizzare una sintesi tra l’umano e il religioso?

Una mia mostra si chiamava “Più grande dell’umano, più piccolo del divino”. Era basata sul tentativo di definire un monumento, di farsi portavoce dello sforzo degli uomini...

 

A giudicare anche dal tuo impegno civile, il misticismo dell’opera non sembra voler evitare la realtà empirica, né quella delle verità più intime.

Sono molto interessato alla realtà. Il problema vero è che spesso i politici di professione si dimenticano della sua importanza. Mi riesce difficile pensare che l’opera di un artista possa assolvere un impegno “civile”, cioè di utilità sociale, anche fatta di critica o denuncia. Mi viene in mente “Guernica” di Picasso che ha sviluppato un impegno formale a un livello talmente elevato da rappresentare per la nostra società un’interrogazione permanente, un fatto del tutto inedito. Ecco allora l’opera può assumere un significato civile, non tanto per le capacità di commentare la realtà, ma per la tensione che si misura con la possibilità di estrarre da essa dei dati profondi restituendoceli “stravolti”, come “stranieri” che tornano ad interrogarci. Per questo motivo considero negativamente tutta l’opera del realismo socialista o quella che ancora oggi si preoccupa di rappresentare la realtà.

 

Con la tua identità come ti rapporti al contesto artistico?

Mi sento un po’ frastornato, un sopravvissuto. Forse capita a chi arriva ad un’età non più giovanissima, dopo aver superato uno scoglio che gli permette di continuare a fare l’artista. Faccio lo sforzo di ragionare intorno alle cose che mi hanno mosso fin dall’inizio. Spero in questo modo di toccare qualcosa di fondamentale, di necessario anche agli altri, non perché tutti si debbano interessare al mio lavoro, ma perché essenziale alla nostra comune avventura.

 

La tua produzione mostra stabilità morale, ma appare insoddisfatta e sembra nascondere una tensione drammatica di dimensioni non limitate all’autore...

Mentre gli oggetti d’uso derivano da una pratica industriale e da un ragionamento sociale, l’opera, pur essendo realizzata da un singolo artista, una volta ultimata è così distante da lui che non è chiaro da dove sia stata generata. In questa non appartenenza sta il dramma. Quindi, è sempre insoddisfatta, ma nel contempo fortemente appagata di questo passaggio, di questa avventura.

A cura di Luciano Marucci

 [“Juliet” (Trieste), n. 102, aprile-maggio 2001, pp. 38-39]