Home arrow Viaggi nell'arte arrow Incontri arrow Michelangelo Pistoletto. Autoritratto del mondo (dicembre 2001-gennaio ‘02)
MICHELANGELO PISTOLETTO Autoritratto del Mondo PDF Stampa
Pistoletto, se non sbaglio, fin dall’inizio i tuoi quadri specchianti non registravano passivamente la realtà come nella Pop-Art americana; erano opere che, sia pure a distanza, cercavano di dialettizzare con l’esterno. In questo senso tendevano già ad uscire dalla virtualità per rapportarsi con lo spazio vitale.

 

Che posso dire? Sento che parli della Pop-Art e fai un raffronto tra i miei quadri specchianti degli inizi anni Sessanta e questo movimento. La cosa che in quel momento si sentiva come urgente ed ha indotto a creare certi lavori, i miei e quelli della Pop-Art, era la necessità di rioggettivizzare il rapporto tra artista e arte come fase successiva al lavoro importantissimo fatto prima, ma di carattere prevalentemente soggettivo. L’espressionismo astratto e l’action painting portavano alla sigla individuale. La mia necessità di oggettività non era legata ad un sistema socio-economico specifico, come per gli americani che riconoscevano l’oggettività nel sistema avanzato della pubblicità e del consumismo. Io pensavo, in maniera più vasta, ad una oggettività filosofica, scientifica, spirituale e, quindi, a un’idea complessiva di quello che è il pensiero di matrice europea. Non per assumere un’etichetta europea; tutt’altro, la mia era una visione globale che non nasceva da un fatto personale, ma dalla volontà di capire come muovermi nel mondo, cosa pensare. Le risposte che mi dava la società non erano sufficienti. Cercavo una dimensione di globalità in quanto situazione comune, oggettiva; una visione comprensiva della socialità. Partendo dalla necessità di collocarmi sulla vasta scena del pensiero, anziché produrre un gesto soggettivo, mi sono messo a guardare me stesso oggettivamente. Nel momento in cui ho scelto di trasformare la tela in specchio, mi sono riconosciuto non solo nell’autoritratto, ma ho realizzato l’autoritratto del mondo, aperto alla partecipazione di tutti. L’individuo non è più un soggetto unico e totalizzante, ma è uno insieme a tutti gli altri. Appare nell’opera insieme alla moltitudine, la fluidità, il movimento, la trasparenza e la differenza. Tutto questo diventa trascrizione di oggettività.

 

Ciò si è ben focalizzato col passare degli anni… Oggi possiamo dire che, grazie alla tua versatilità linguistica e alla “prolificità intelligente” - che ti hanno portato a transitare dall’oggettualità all’installazione e alla performance - ci sia stata una trasformazione dello specchio, appunto, per andare incontro al mondo…

Lo specchio ha riaperto una porta, una prospettiva che si era chiusa alla fine dell’Ottocento. La prospettiva rinascimentale che conduceva alla scientificità del progresso aveva in quel tempo raggiunto l’obiettivo finale. La capacità dell’arte di essere prospettica era diventata prerogativa della scienza, della tecnologia, della speculazione economica, della pubblicità; di tutti quegli elementi che gli americani hanno raccolto come modello. Non più una prospettiva dell’arte, ma esterna ad essa. Io, invece, volevo recuperare la prospettiva interna all’arte stessa, rivolta al mondo, è per questo che lo specchio è diventato una porta che bucava il muro, aprendo la nuova prospettiva di direzione opposta a quella rinascimentale;  è cambiata completamente la prospettiva, prima basata sull’avanzamento assoluto, sul progressismo, sull’avanguardismo. Con lo specchio ho mostrato che tutto ciò che noi possiamo produrre davanti a noi è una responsabilità del passato, perché esso ci mostra ciò che sta alle nostre spalle. C’è allora una prospettiva che è anche retrospettiva. Un arresto dell’idea unica di progresso, in una doppia direzione prospettica che poi si è chiamata post-moderna. Bisogna guardare anche al passato per una nuova azione verso il futuro. Il DNA che oggi ci compone è carico di responsabilità, sia positive che negative. Per me si tratta di fare il punto della situazione guardando avanti e indietro nello stesso tempo. Su questo profilo io ho portato avanti le mie azioni, ho cominciato ad incontrarmi con gli altri, a praticare una creatività interpersonale, a considerare l’arte come atto di responsabilità.

 

Un tracciato non programmato, ma lineare e progressivo, che sottende una filosofia personale…

È la ricerca che continua. Quando uno arriva a trasformare l’icona pittorica nell’icona specchiante, fa scattare una nuova forma di pensiero che non permette più di tornare al vecchio credo; la porta dello specchio rimane aperta ed io sono diventato in qualche modo il suo guardiano. Tenere lo specchio aperto, per poi penetrarlo ed indagarlo, ha significato capire quanto - sia il pensiero scientifico, sia quello filosofico - sono legati al pensiero artistico.

 

Probabilmente a far maturare il tuo laboratorio culturale ha contribuito l’atteggiamento analitico e progettuale che ha sempre caratterizzato il tuo lavoro …E non è mancata una certa ‘volontà’ di interagire col sociale.

Direi di sì. A partire dagli anni Sessanta l’interazione col sociale è stata la parte più attiva del mio lavoro, anche se ciò non ha escluso che io facessi un’analisi approfondita del fenomeno speculare; dello specchio come mezzo di ricerca. In tal senso ho portato avanti due aspetti: la riflessione e l’azione, l’una complementare all’altra. Due sono state le situazioni importantissime che hanno determinato la base teorica per le azioni seguenti: la divisione e la moltiplicazione dello specchio e gli oggetti in meno, i quali apparentemente sembravano distanti dalla forma fisica dello specchio, ma che, invece, facevano parte della stessa ricerca. Entrambi mi portavano a capire quanto importante fosse la differenza davanti a una concezione generale dell’arte in cui l’artista doveva essere assolutamente omogeneo nella sua formula. Gli oggetti in meno mi hanno permesso di fare un passo successivo oltre lo specchio, di fare il passo nella dimensione della differenza che oggi è diventata l’alternativa alla globalizzazione.

 

Ciò ovviamente ti ha portato al superamento dello specifico artistico, ad investigare oltre te stesso e a diversificare la tua identità.

Con gli oggetti in meno ho impersonato trenta artisti; ho fatto esplodere la mia unicità in tante unità; una mostra personale-collettiva in cui io ho incominciato a diversificare i momenti di me stesso, nella quale si è ben articolato anche il discorso sulla dimensione tempo. In ogni momento siamo diversi, come sono diverse le persone, le razze e le culture.

 

Così l’artista abbandona la sua riservatezza per assumere il ruolo di operatore culturale…

Questo pian piano. Già quando io ho creato lo Zoo, ambito di attività interpersonale e multidisciplinare, nell’ambiente artistico correva voce che Pistoletto avesse smesso di lavorare, perché non restavo all’interno dei canoni prefissati dal sistema dell’arte di quel momento. Era già un muoversi in una dimensione che scandiva i presupposti dell’impegno sociale dell’arte che caratterizzavano i successivi progetti.

 

Relazionarsi alla condizione umana può aiutare a mantenere viva la ricerca?

Certamente.

 

In definitiva c’è stato un allontanamento dall’individualità e dalla metafora; una migrazione dall’esperienza artistica a quella esistenziale; dall’opera autoreferenziale e dal museo…

Stai parlando di tutto un processo che mi ha portato gradualmente dalla trasformazione dell’oggetto - come possibilità di ricerca in se stesso, come autodefinizione - all’intervento sul sistema. I miei lavori sono divenuti organismi entro cui non solo gli oggetti dell’arte possono vivere e articolarsi, ma tutti i soggetti della vita comune. È necessario che l’arte diventi il punto creativo che mette in comunicazione tutti i settori del mondo civile, contribuendo a organizzare sistemi più responsabili rispetto a quelli che l’odierna società offre.

 

È tramontato o no il mito dell’opera d’arte ‘inutile’?

Io ho coniato due termini che prima non esistevano: arte ortodossa e arte eterodossa. Come in una religione c’è una struttura ortodossa che mantiene il nucleo autoreferente, così l’arte, come roccia che sta lì ai nostri piedi, serve da supporto e anche da punto di ritorno continuo, ad una eterodossia, per far funzionare la creatività nel mondo, senza perdere quella centralità, quella fondamentale responsabilità, significativa e concettuale, che l’arte ha guadagnato nel Novecento con la propria autonomia. L’eterodossia invece è l’apertura alle altre dimensioni che formano il mondo. Ho creato la Cittadellarte (con una parola unica) pensando alla cittadella e alla città. La cittadella è la difesa, la città è l’estensione. Io ho sempre presente che l’ortodossia dell’arte non deve diventare pura illustrazione di determinate forme politiche, economiche, di potere; bisogna che si estenda e crei sistemi eterodossi in cui anche l’autoreferenza artistica possa avere un valore forte.

 

Da come ti esprimi si capisce che il tuo è un discorso piuttosto motivato, radicato.

Radicatissimo! Mi sono accorto della mia predisposizione, o meglio predestinazione, quando la tela è diventata specchio. Lì ho capito che dovevo fare quello che sto facendo.

 

Il progetto arte di questi anni è nato anche da un’intenzione politica?

La politica è molto problematica. Chiaramente esiste ed è una delle cose più coinvolgenti a livello pubblico. Sarebbe come dire: lei crede nell’etica? Rispondo sì, ma non penso che essa possa esistere e marciare da sola. Senza l’estetica l’etica non funziona. Oggi c’è una cattiva estetica politica e c’è una cattiva etica che va corretta artisticamente. L’estetica è responsabilità. Pensa a un paesaggio, non a quello dipinto sulla tela, ma a quello vissuto, ambientale, urbano. Se noi gli diamo una valenza estetica, studiando qual è la maniera migliore per vederlo e frequentarlo, facciamo un’operazione estetica, ma immediatamente all’interno di questo paesaggio ci sarà una vita assolutamente migliore con una conseguenza etica.

 

Cittadellarte in fondo dimostra che la produzione tradizionale ha dei limiti rispetto alle urgenze del vivere.

Penso che oggi ci sia una irresponsabilità generalizzata in tutto quello che è considerato opera d’arte, facente parte di un sistema ormai tradizionale del moderno e contemporaneo. Penso, però, che ci sia una grande necessità di impiegare l’autonomia - straordinaria, importantissima - che l’arte ha acquisito nel ventesimo secolo, per rendersi conto che essa deve divenire un po’ il cuore, il nucleo di un nuovo passaggio. Per come oggi è utilizzata dal sistema, l’arte è falsamente autonoma, è asservita, essa può portare avanti la sua autonomia solo se messa al centro del sociale come autoresponsabilità. In questo modo l’autonomia continua, si rigenera e genera. A volte è stato affermato che l’arte, avvicinandosi ad altre discipline, rimane contaminata. Nel laboratorio di Cittadellarte non si produce arte applicata, ma arte implicata nelle cose del mondo.

 

Se ne è parlato molto quando Celant nel 1996 curò la mostra “Il tempo e la moda” a Firenze.

Sì, queste sono interpretazioni speculative che non nascono da una vera necessità creativa. Sto parlando di qualcosa che non parte dalla burocrazia e nemmeno dalla critica; qualcosa che nasce dall’arte. È una nuova visione in cui l’arte assume una responsabilità centrale, non laterale. Io nella Cittadellarte con l’opera creo un’istituzione.

 

In sintesi, quali finalità persegui?

È un laboratorio che chiama giovani da varie parti del mondo e li mette in condizione di lavorare su progetti specificamente legati al sociale; intendendo per sociale: produzione, progettazione urbana, ricerca sui sistemi economici. La parola d’ordine è “ogni prodotto assume responsabilità sociale”.

 

Con ciò Pistoletto vuole porsi inequivocabilmente fuori dall’operatività artistica?

No, no, è la stessa cosa. Nel Novecento, quando non si rispettavano i canoni ottocenteschi, si parlava di arte fuori dall’arte. Io oggi penso di penetrare nel cuore di essa.

 

Rispetto al sistema tradizionale…

Esatto. Credo che sia un lavoro che penetra con assoluto rigore all’interno della qualità che l’arte deve portare alla vita.

 

Ma bisogna rompere dei diaframmi per arrivare a questo. Ci sono delle resistenze.

Io non vedo proprio le resistenze di cui parli. Non faccio la boxe con nessuno e, tanto meno, con l’ambiente artistico che continua ad accogliere le mie opere personali. Però non fermo il mio capitale su quelle opere, lo transito in una dimensione di responsabilità nuova e lì lo metto a frutto.

 

Il tuo programma è concettualmente e geograficamente confinato o prevede il coinvolgimento di altre aree?

Il museo è un po’ come il santuario, la basilica dell’arte. Naturalmente questo tempio dell’arte, così come per le religioni, trova una compromissione fortissima con il potere e si compromette anche con i danni che esso crea, non soltanto con i benefici. Quindi, queste cattedrali mi lasciano sospettoso, pur se credo sia utile che la gente acquisisca la sensibilità - diversa da quella dogmatica - che l’arte può offrire. Ben vengano i musei che non sono assoggettati ad un sistema economico della speculazione insensibile. Ad esempio, l’imprenditoria oggi usa acquistare opere d’arte come pura forma d’investimento. Non so se questa sia comunicazione. Da una parte c’è l’arte e dall’altra il sistema della produzione  e dell’economia. Si deve invece abbattere il muro divisorio tra arte e produzione su cui si appendeva il quadro; lo si deve perforare per renderlo comunicativo. Se le due forme di creatività - quella artistica e quella comune – sono messe in condizione di interagire, possono formare il nuovo sistema di responsabilità.

 

Questo tuo pensiero ha qualche affinità con l’utopia concreta di Beuys?

Per me è difficile stabilire un raffronto, né so bene dove Beuys volesse andare a parare. Io cerco, in tutti i modi, di non mettere la mia persona in primo piano, di non fare l’eroe. Non mi interessa sacrificare me stesso per una buona causa. Penso che la buona causa vada contro il sistema del sacrificio…

 

Quindi, non solo azioni simboliche, ma reali…

Per me non basta dire tutti sono artisti; bisogna fare un lavoro di penetrazione tecnico-operativa, passo dopo passo: progettare, agire, trasformare il non-luogo dell’utopia in luogo di attività. Cittadellarte è un luogo attivo e produttivo che mette l’arte al centro di una responsabilità transitoria plurisettoriale.

 

È un organismo collettivo non limitato all’azione di Pistoletto…

La mia azione è indicativa, propulsiva; è la garanzia di un percorso, un po’ come in famiglia, dove il padre ha la responsabilità di istituire un sistema familiare organico, poi il nucleo va avanti da solo. A volte i figli si ribellano ai padri, ma questo è anche positivo.

 

Intendi interloquire sempre più con le altre discipline, con la scienza?

Le materie su cui lavora UNIDEE - Università delle Idee, organo primario di Cittadellarte - sono quelle fondamentali della struttura sociale: economia, religione, politica, educazione, comunicazione, produzione, Arte, nutrimento, scienza.

La scienza è una garanzia straordinaria per la trasformazione di quello che è stato il pensiero religioso e dogmatico; cioè dell’idea di verità artificialmente imposta. La scienza sposta il metodo della via alla conoscenza, non dà risposte assolute. È un movimento, quello scientifico, che sposta la frontiera del conoscere, del sapere e cambia il sistema dogmatico portando all’accettazione della relatività, della fluidità, del cambiamento e della differenza. Attraverso l’arte io credo di aver messo a punto delle risposte molto vicine al vero, addirittura vere, proprio perché ho accettato il sistema scientifico di verifica e non soltanto quello dell’imposizione di risposte ipotetiche.

 

L’opera in atto deriva da una speculazione sociologica sull’esistente?

I vari sistemi mostrano più che altro la necessità di trasformazione, ma anche l’incapacità di trasformare veramente. Soltanto un grosso impegno creativo può far scaturire una maestria della trasformazione. Si deve garantire una responsabilità di fondo, e soprattutto l’arte può produrre l’energia necessaria.

 

Lo spazio sociale è inteso come ‘opera’ totalizzante consapevole…

Sì, come opera, ma non soltanto dell’artista. Opera di collaborazione da parte di tutte le componenti del sociale.

 

Se la “libertà è anche responsabilità”, la creatività al servizio di…, può rimanere condizionata?

C’è sempre la paura di perdere l’anima artistica, la sacralità dell’arte, incrociando il sociale. Io, come ho detto prima, uso il termine “arte implicata” nelle cose. Non parlo di arte al servizio di… L’arte nel passato è stata al servizio della politica soprattutto attraverso la religione. Oggi, semmai, bisogna far sì che siano le religioni, la politica, l’economia a rappresentare l’arte e non viceversa. Rappresentarla nel senso che devono assumere lo stesso impegno dell’artista, maestro d’impegno non soltanto verso i ragazzi dell’accademia, ma verso quelli che devono disegnare il mondo.

 

È singolare sentir dire con convinzione queste cose nel momento in cui si avverte un disimpegno degli intellettuali.

Gli intellettuali dovrebbero essere i più impegnati nella società, ma conoscendoli, purtroppo, non ne vedo tanti desiderosi di prendersi delle responsabilità sul piano interpersonale. Preferiscono chiudersi nel loro singolo e personale successo, anche quelli bravi.

 

La soggettività del prodotto artistico ha bisogno di una legittimazione razionale?

Sì, ma non di razionalismo.

 

Tornando all’immagine dello specchio: è come specchiarsi per interrogare la propria immagine…

Non solo la propria immagine, ma quella del mondo.

 

In tal modo l’opera si spersonalizza e l’arte assume un’altra funzione.

L’arte porta la personalità individuale di ciascuno al massimo livello, porta autocoscienza agli individui.

 

Ora quale potrebbe essere l’autoritratto più somigliante all’azione che vai promuovendo?

Posso dire che dopo i quadri specchianti, gli oggetti in meno, lo Zoo e il lavoro con altri, il mio autoritratto si suddivide in innumerevoli possibilità di espressione, di sfaccettature. Quando ho fatto il lavoro della suddivisione dello specchio ho dato inizio alla suddivisione di un elemento che chiamerei universale, perché lo specchio riflette tutto. Più lo allarghi e più spazio riflette. Se lo pensi enorme, concettualmente, idealmente, puoi immaginare che esiste la realtà da una parte e la virtualità dall’altra, che più immediata e più autentica dello specchio non c’è. Lo specchio rappresenta il mondo con un’unica natura, “l’immagine”. Se portato in frantumi, dimostra che ogni pezzettino ha la stessa qualità del grande specchio. Quindi, c’è una espansione dell’individuo come nell’universo. L’idea di autoritratto non è più solo mia, è degli individui; ogni punto è il centro dell’universo.

 

È un autoritratto reale, ma anche ideale e concettuale?

Per me, assolutamente reale.

 

Pensi che il tuo progetto aperto alla realtà possa trovare un’applicazione più estesa?

Mi sto muovendo in questo senso, dando spazio e garanzia a tutti quelli che credono che sia necessario agire in direzione della coscienza individuale e della trasformazione continua della società come affermazione di responsabilità.

 

Le amministrazioni pubbliche che ruolo possono assumere?

Non riescono a dare sufficienti segnali in questa direzione. La nuova attività creativa non toglie nulla, ma dà qualcosa di più portando un pensiero e una responsabilità di cui tutti hanno bisogno.

 

Non hanno l’intelligenza di…

Non ci si deve aspettare che abbiano l’intelligenza di capire; occorre creare dei sistemi in cui automaticamente le cose si riversano. Parlo di sistema generale, mondiale.

 

Credere al cambiamento di un sistema così ampio è positivo, ma riporta nelle sfera delle ambizioni utopiche.

Tu pensi che quando si crea un’impresa come quella di Cittadellarte sia per servire soltanto il territorio biellese?

 

No, ma è anche difficile conquistare il mondo intero.

Il mondo si conquista da solo. Le civiltà sono nate dalle idee unite alle necessità. Se poi le necessità sono molto forti, i tempi si abbreviano. Quindi, non si tratta di utopia.

 

Fattori limitanti?

I problemi finanziari? Una volta si credeva nei miracoli... Io penso che se una causa è funzionale, trova in sé delle soluzioni anche economiche. Abbiamo superato il tempo della guerra fredda in cui avevamo da una parte il capitalismo e dall’altra l’idea comunista. Il comunismo è caduto e adesso c’è il capitalismo da solo. Il comunismo non permetteva che l’economia passasse attraverso l’individuo, il quale non esisteva. Il danaro non era passaggio interindividuale. Io personalmente quello che guadagno come artista lo passo ad altri che lavorano ad un sistema più vasto, più aperto, in cui si opera per la trasformazione. Ecco allora che l’economia passa attraverso l’individuo, però non si ferma nelle sue mani. Il capitalismo, al contrario, blocca tutto su gruppi di individui che cercano per sé ogni garanzia di crescita e basta.

 

…Per crescere anche mostruosamente…

Sì, mostruosamente, perché io come artista, vendendo le mie opere accumulo ricchezza per me e non produco passaggio. La stessa cosa fanno gli industriali, le multinazionali; sono individui che portano tutto verso se stessi e non permettono il largo sviluppo di trasformazione del passaggio, quindi, non hanno responsabilità sociali, ma solo aziendali. Né comunismo, né capitalismo vanno bene. Ci vuole una nuova condizione per restituire al danaro la natura vera che è quella di passaggio per produrre trasformazione e civiltà. Io sono impegnato in questa direzione.

 

Si può dire che la tua sia una sorta di religione razionale…

Sì, se per religione s’intende lo stare insieme.

 

I progetti responsabili vengono approntati su committenza?

Cerco di fare in modo che la committenza sia da ambo le parti. Ho coniato un altro slogan: “Artista, sponsor del pensiero”. Io sono un committente di trasformazione e dall’altra parte c’è una committenza di necessità. Oggi i sistemi economici, industriali e commerciali sentono il bisogno di innovazione, ma non sanno cosa fare. Io posso aiutarli in questo senso.

 

Qualche esempio.

Non ci colleghiamo tanto con le pubbliche amministrazioni, piuttosto con i privati. Soprattutto gli industriali che sentono questa necessità.

 

Per altruismo…?

No, per egoismo. C’è una tale competizione a livello di produzione di offerta e di creazione artificiale di bisogni che tutto si riversa nel bombardamento della pubblicità.

 

Vogliono caratterizzarsi?

È un’apertura a possibili suggerimenti di lavoro interattivo. Per esempio, il lanificio Ermenegildo Zegna dà alla Fondazione Pistoletto-Cittadellarte borse di studio per i giovani che producono delle idee. L’Università delle Idee da noi creata è il cuore della Fondazione.

 

Attuate corsi regolari?

Regolare attività di laboratorio che dura alcuni mesi. Ogni settimana c’è un seminario con esperti diversi.

 

…Su tematiche specifiche?

Sì. Di tipo sociologico, filosofico, produttivo. Anche i produttori sono chiamati a parlare con i giovani perché esprimano le loro necessità. Gli esperti sono persone che non vengono ad insegnare, ma a portare il loro punto di vista su una ricerca che sentono utile.

 

Le persone come vengono scelte?

In base alle loro affinità con la nostra ricerca, in senso creativo e di trasformazione. C’è un prospetto tematico di indirizzo che viene diffuso tra i giovani (architetti, musicisti, artisti, universitari di ogni campo) i quali sanno che per essere scelti devono inviare dei progetti di “trasformazione sociale responsabile”. Mandano degli elaborati che servono ad individuare la capacità di lavorare anche in altri progetti che noi proponiamo.

 

Pur avendo letto della vostra attività, non avevo capito appieno l’approccio al reale. Penso che ciò meriti di essere divulgato meglio.

In questi anni stiamo cercando di rendere sempre più chiari i nostri obiettivi.

 

Diversamente, la vostra azione può apparire teorica e generica.

Però dobbiamo stare attenti a non parlare prima che ci siano dei veri risultati. Non vorrei fare la pubblicità ad un prodotto ancor prima che esista. Ora il laboratorio c’è e i prodotti stanno nascendo.

 

Inizialmente sembrava un progetto vago e confinato nell’ambito artistico, anche se orientato verso l’esterno e la dimensione oggettiva; adesso l’intenzione sociale è più evidente.

Quest’anno, per la mostra “Arte al Centro”, ho invitato artisti che portano il germe di queste problematiche, e produttori (sia culturali che materiali), fondazioni umanitarie, economiche, ecc. Quindi, non solo gli artisti, ma anche la controparte.

 

Poiché la tua Fondazione presuppone un’attività informativa, opera pure in rete?

Abbiamo un portale della Cittadellarte e uno per l’Università delle Idee uniti, sempre attivi e aggiornati (www cittadellarte.it). I giovani vengono da tutte le parti del mondo: Sudamerica, India, Corea, Europa. Purtroppo gli italiani sono pochi; sono molto mammoni. Per comunicare usiamo la lingua inglese. I progetti degli italiani lasciano a desiderare; c’è più forza nella parte sud del mondo. I giovani si collegano con Internet e continuano i progetti a distanza, anche quando è finito il periodo di lavoro nella Cittadellarte, attraverso una comunicazione continua che si intreccia con quella dei nuovi arrivati, che entrano a loro volta in rete.

 

Ti ritieni soddisfatto dei risultati raggiunti?

Sì, soddisfatto.

 

Come va letto il tuo intervento presso la Galleria di Franca Mancini a Pesaro, curata da Bonito Oliva?

L’avevo pensato quattro anni fa, ma per impegni ero stato obbligato a rinviarlo. Ho portato una situazione più ortodossa, legata ovviamente al festival rossiniano, con un tipo di intervento riferito al “progresso” tra Ottocento ed epoca moderna. Rossini era l’ironia giocata tra due sponde, tra due momenti storici. Era uno che già minava la classicità. Mi interessava questo suo aspetto. Perciò, ho fatto una performance con un concerto in bicicletta riallacciandomi a Balla e Satie che avevano realizzato una cosa simile. Allora, però, c’era l’idea del progresso; per me oggi la bicicletta rappresenta il ritorno ad un mezzo non inquinante. Lo trovo più ecologico e poetico.

 

Per finire, come vedi il fenomeno della globalizzazione? Sei anti o pro- global?

La globalità oggi esiste e non si può fare a meno di pensare che, data la velocità della comunicazione, il mondo debba essere visto come un’unica regione. Questa idea di global - l’ho già detto prima - può essere assolutamente accentratrice nel senso di individualità economica forte, oppure basata su una situazione di differenze climatiche, culturali, storiche, locali, tradizionali che sono il vero sapore della terra su cui viviamo. Vedo una globalità di differenze e non di uniformità. Io ho coniato uno slogan: “eliminare le distanze e mantenere le differenze”.

 

…E il rapporto individuo-società?

La società deve essere fatta di individui ai quali riusciamo a dare la stessa autonomia che l’artista ha guadagnato per sé nel ventesimo secolo. Se oggi si può dare anche ai non artisti la capacità di definire se stessi, come punto tanto centrale quanto differente rispetto agli altri, abbiamo una moltitudine di individui coscienti che producono nuova società umana.

 

L’ecologia che posto occupa nei vostri programmi?

È lo sbarco sul nuovo pianeta. Non avendo più terre da conquistare, dobbiamo riappropriarci della terra che abitiamo da sempre. Ecologia vuol dire ritrovare a ritroso la Terra su cui viviamo. Noi andiamo sulla Luna, su Marte, ma il paesaggio terrestre è la prima estetica che dobbiamo riconsiderare.

 

              A cura di Luciano Marucci

[«Juliet» (Trieste), n. 105, dicembre 2001-gennaio 2002, pp. 32-35]

 

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