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MARIO CONSIGLIO PDF Stampa

Nel tuo percorso noto una progressione verso soggetti più articolati. Penso alle figure isolate o seriali che hanno lasciato spazio alla strutturazione di contesti ambientali.

Credo che il mio lavoro negli ultimi anni si sia evoluto: dalle tematiche pop sono passato all’astrazione, ma solo perché in questo momento mi piace di più… Il problema dell’astrattismo è cosa superata, per questo oggi lo si può fare con più libertà.

 

Il quadro ha un  impatto meno immediato, mentre si fa strada il racconto privo di trama.

Prima usavo colori più accesi, ero più psichedelico, anche nelle tematiche. Era un periodo in cui avevo più voglia di meravigliare . Oggi sono meno eccentrico, forse più elegante, più profondo…

 

Con disinvoltura pop passi dalle forme embrionali a quelle animali, umane e postumane; dalle astrazioni con varianti cromatiche ai monocromi.

È il mio stile. Sono stato fortunato a trovare una tecnica che mi dà la possibilità di ripercorrere le varie tappe dell’arte. Faccio quello che mi piace e che al momento ritengo sia giusto. Adesso, per  esempio, penso ai “gesti”, semplici linee nello spazio… Magari domani dipingerò forme geometriche o ritratti, non so dove mi condurrà il mio gusto… Il bello è sorprendere anche se stessi!

 

Questa diversità di forme-immagini è manifestazione di indipendenza o di prolificità?

Di tutte e due le cose. Indipendenza, grazie all’originalità e alla convinzione che con questa tecnica possa fare  di tutto. Elaboro un tema finché non mi stanca, poi passo ad altro… Le idee, per fortuna, non mi mancano.

 

La libertà espressiva è esaltata anche dai puzzles debordanti e dai paradossi...

Attualmente che valore dai alla componente giocosa?

Mah, non lo so! Vedo le cose così anche quando sono triste. Una volta ero più ironico e ‘demenziale’, adesso sono più serio… Per la verità, i miei quadri (tranne alcune volte) non mi hanno mai fatto ridere. I “mondi fantastici”, pieni di colore, nascevano come inganni. L’apparenza era giocosa, ma i messaggi, a ben guardare, erano l’esatto contrario: scene di pedofilia, guerra, droga, morte e distruzione. Il male pensato e mascherato in gioco.

 

La tua produzione, pur essendo atipica, non ignora certi modelli.

Cosa resta oggi degli insegnamenti di Burri, Pascali, Boetti, Haring...?

Burri è il Dio della materia. Fino all’età di dieci anni sono vissuto a Città di Castello. Mio padre mi portava alla Fondazione Albizzini e per me era fantastico. Mi facevano impazzire le combustioni, le plastiche rosse e nere bruciate. Pascali era pugliese come me: è la forza del mare e il Dio dell’archetipo. Quando passo da Polignano a Mare e passeggio lungo i bastioni battuti dal vento, è come se sentissi il suo fantasma, la sua energia. Boetti è il lavoro universale con i suoi arazzi afgani, come del resto il “Pan Pan de Monaco” di Severini. Entrambi hanno ispirato le mie realizzazioni colorate e complesse. Di Haring mi hanno sempre affascinato la continuità e la semplicità del segno che ha accompagnato la mia adolescenza. La memoria  storica è sicuramente importante: all’interno di essa risiedono tanti altri maestri che hanno contribuito alla mia formazione e alla mia coscienza artistica.

 

L’abilità nel confezionare raffinate opere estroflesse, dando massimo risalto all’aspetto pittorico- plastico e alla fluidità della composizione, può essere interpretata come una sfida ai procedimenti tradizionali e una nobilitazione della pratica artigianale?

La mia non è una sfida, è quello che sono. Io penso che geneticamente portiamo nel subconscio il piacere della materia, è per questo che la pittura e la scultura non moriranno mai; hanno un ‘odore’ particolare. Quando mi avvicino ad un quadro ad olio, osservo il verso, l’intensità, la delicatezza della pennellata…  Queste sensazioni non te le darà mai nessun computer. Per fare arte digitale oggi bisogna essere molto bravi, avere grandi idee come Micha Klain, Loris Cecchini, Aziz+Couche. Credo che questi ultimi siano stati i primi a sperimentare certe soluzioni. Oggi si vedono troppe opere con poche idee.

A proposito del mio fare arte, non si può parlare di artigianalità, è troppo riduttivo. Allora anche Ron Mueck e Dinos & Jake Chapman sono artigiani. Tutti i pittori e gli scultori sono artigiani. Non sono un tappezziere…, con tutto il rispetto per la categoria. Diciamo che “nobilito“ la capacità di costruire, del saper fare certi lavori. Molti artisti cercano le vie più semplici con il computer o la video arte. Mi sta bene, piacciono anche a me, ma, quando vedo dei lavori che sono delle imprese più che delle sfide, sono contento.

 

Io, infatti, ho parlato di ‘artigianalità’ in senso positivo, come recupero della manualità e valorizzazione di una pratica non sempre apprezzata nella giusta misura, ma, appunto, anche come antidoto alla dilagante tecnologia.

Procediamo. La tua esperienza vuole essere di ‘evasione’, provocatoria o tende a proporsi come oggetto di comunicazione culturale?

La mia è semplicemente Pittura, Materia, Colore e Forma.

 

Ma di quale mondo tratta?

Fare arte non significa necessariamente parlare di un mondo. Per me è più una evasione. Non è realtà, ma può convivere con essa; è altro quello che cerco ed è, fortunatamente, ancora una incognita.

 

Le memorie collettive prevalgono sull’autobiografia?

È sempre difficile staccarsi completamente dalle proprie memorie ed è importante che rimangano parte di noi. Penso che il mio lavoro, a questo punto, abbia trovato una sua dimensione. È comunque interessante confrontarsi, sia con il passato che con il presente, dal momento che tutto, a sua volta, verrà giudicato dal futuro. Ai posteri l’ardua sentenza!

 

Hai mai pensato di costruire unicamente opere tridimensionali da installare nello spazio agibile?

Ne ho fatte molte durante e dopo l’Accademia. Alcune le ho bruciate: non sapevo più dove metterle. Altre sono ancora vicino a me. Nel settembre 2001, in occasione della mostra “Laboratorio Materiale”, organizzata a Fano da Enrico Astuni, ne ho presentata una dal titolo “Saverio’s House”. In ogni caso, nel mio lavoro il confine tra pittura, scultura e installazione è molto fluttuante. Mi riferisco alla mostra “570” da “carbone.to”, in cui 570 piccoli quadri percorrono l’intero perimetro della galleria.

 

Quali i soggetti che si ‘aggirano’ per la galleria e quali le particolarità della serie?

Sono pezzi di cm 10x10 ciascuno: formano una linea continua che taglia in due (orizzontalmente) lo spazio. Il lavoro è dedicato alle forme naturali. Ho disegnato al computer sei tavole da 100 pezzi ognuna, tracciando liberamente delle linee sulla superficie a disposizione. Successivamente, scomponendo, ho ottenuto i singoli pezzi che ho ricomposto in una installazione. Fondamentali sono i disegni di base, che ho esposto per far capire la dinamica del lavoro e le tante soluzioni che si possono ottenere variando forme e colori.

 

A cura di Luciano Marucci

[«Juliet» (Trieste), n. 111, febbraio-marzo 2003, p. 52]