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ROCCO DUBBINI PDF Stampa

Dopo esserti distinto nelle otto sedi della mostra-inchiesta itinerante “Markingegno” e aver presentato opere piuttosto diversificate in altre collettive, sei giunto alla prima personale con la complicità della Galleria romana Il Ponte Contemporanea.

Questa volta, oltre alle elaborazioni informatiche, hai portato un lavoro tridimensionale. La proposta, piuttosto scioccante, per certi versi segna uno sviluppo dell’esperienza video, ironico-drammatica, che aveva per ‘protagonista’ un giovane down.

Nell’ultima serie di lavori agiscono personaggi a grandezza naturale, mutanti: un bambino, un pollo spennato e un maialino con la pelle fatta di cerotti rosa da medicazione (protetta con un preparato plastico invisibile). Tre piccoli esseri indifesi, costretti a vivere la prima fase della loro esistenza (quando l’istinto prevale sulla ragione e l’immediatezza sulla logica) all’interno di uno stadio vuoto, abbandonati ai loro istinti primari. La convivenza forzata li obbliga, inesorabilmente, a stabilire un contatto e a rendersi complici. Poiché la conoscenza non è un percorso lineare, le vittime possono trasformarsi perfino in carnefici. Oltre al lavoro scultoreo, ho esposto sette immagini digitali che raccontano momenti significativi della loro singolare esperienza.

 

Praticamente hai offerto una visione multipla, facendo dialettizzare la virtualità di un media tecnologico con soggetti fisici ancora legati alla manualità e alla vocazione plastico-pittorica, da cui non vuoi distaccarti, in una sorta di relazione-clonazione ambientale-concettuale fra le due entità…

Non nego la piacevolezza che si prova nel tornare alle origini; al gioco del costruire e del plasmare, se non altro per il ricordo del ceroplasta greco e degli anni trascorsi nella fonderia artistica, rievocati dalla pratica del sovrapporre cerotti con il pollice e l’indice come si fa con i frammenti di cera. Così pure il piacere di scoprire l’etimologia di cerotto-cerottolo-cera. Come se l’occhio fotografico avesse documentato i loro giochi, ho effettuato le elaborazioni digitali (cinque trittici e due ‘danze’ quadrate) dei soggetti tridimensionali, che ho ricostruito e incerottato nella varie posizioni. Ma questo non basta a giustificare la presenza della scultura all’interno della Galleria. I personaggi sono invitati come spettatori alla mostra, si rivedono nelle immagini esposte, che documentano le loro vicende dentro lo stadio,  e diventano reali; mentre il pubblico, che fruisce la mostra insieme a loro, entra a far parte della finzione.

 

Ti sei addentrato liberamente in una tematica inquietante per dare visibilità all’immaginario associato a una problematica esistenziale di attualità…

Ho giocato molto liberamente a ricostruire simulacri di soggetti che hanno un ruolo sociale precostituito e marginale. Io li ho corretti; ho chiuso le ferite, conferendo loro un aspetto più gradevole, rassicurante. Ho dato loro una nuova pelle, una pelle prevedibile.

 

Di più, con quelle immagini estreme hai assunto un atteggiamento provocatorio.

Se c’è provocazione nel mio lavoro, spero sempre che venga interpretata come mezzo e non come fine dell’opera. Credo che l’idea della provocazione nasca dalla chiarezza con cui si pone la mia produzione.

 

Nella radicalità e nella spettacolarizzazione dei tuoi “Amici per la pelle”, con gli attori che si esibiscono in uno stadio deserto, permane la voglia di giocare perfino su aspetti degenerativi, come l’ibridismo, le deformazioni e le mutazioni delle specie.

Non credo di avere altre armi. Molte volte giocare significa dare un senso nuovo al senso comune.

 

Quindi, metti in gioco… esseri oggi considerati delle cavie…

Sì, metto in gioco soggetti che hanno un ruolo sociale limitato, elevandoli a ruolo di cavie…

 

Comunque, nonostante la fiction e l’artificialità che rimandano al post-umano, non c’è vera irriverenza per l’uomo e la natura.

La natura rimane per me fonte d’ispirazione: il punto di partenza e d’arrivo della mia ricerca artistica.

 

Per essere chiari, qual è il tuo pensiero sui discussi processi di trasformazione genetica?

L’ingegneria genetica è qualcosa di incredibile che potrebbe emancipare l’uomo e tutte le altre specie. Il corpo, luogo di sperimentazione; il corpo, somma d’identità multiple; il corpo spettacolarizzato, ultima frontiera prima dell’immortalità. Di fronte a noi, scenari apocalittici. I cerotti non riuscirebbero ad arginare l’universo caotico… Il cerotto é un palliativo, non cura, copre le ferite e basta; è un prodotto fatto dai grandi che piace ai bambini perché li fa sentire grandi.

 

Con l’attività artistica ti proponi di dare spazio anche a un’ideologia e di stimolare reazioni positive?

Certamente.

 

L’opera a-morale sottende una valenza etica mascherata dal paradosso e dalla componente ludica? Il gusto per l’invenzione estetica non la vanifica?

Assolutamente no. Il mistero dell’invenzione estetica è il compimento dell’opera, non il fine. La vita non viene forse generata da un volgare atto di piacere?!

 

Ritieni di aver individuato le motivazioni da valorizzare per proseguire il tuo percorso atipico?

Il percorso prosegue con i miei tre compagni di viaggio a bordo di una dream car: una Cadillac Eldorado rosa del ‘57 completamente incerottata…

A cura di Luciano Marucci

   [«Juliet» (Trieste),  n. 112, aprile-maggio 2003, p. 49]

 

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