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MARINA ABRAMOVIC Performer di Classe PDF Stampa
Luciano Marucci: In quale misura le problematiche della realtà quotidiana influiscono sul tuo lavoro?

Marina Abramovič: Anzitutto io vivo nel tempo presente in cui l’ambiente è molto importante. Il retroterra sociale e culturale da cui provengo si riflette nel mio lavoro, ma non immediatamente… Occorre del tempo per assimilare…, come le pieces “Balkan Baroque” che ho fatto per la Biennale di Venezia del ‘97. Hanno richiesto cinque, sei anni - durante la guerra in Yugoslavia - prima che giungessi alla giusta idea.

 

Le tue ‘azioni estreme’ hanno radici etniche, sono un’eredità culturale. Non intendi in alcun modo cancellare la tua storia e la tua geografia?

All’inizio, quando stavo in Yugoslavia, ero molto interessata ad affrontare certe barriere culturali del mio Paese, ma poi, quando sono andata via, mi sono orientata verso altre culture, come quelle aborigene dell’Australia centrale o le Tibetane. Diciamo soprattutto le culture che hanno un approccio radicale verso il corpo e che possono sottoporlo a fortissima tensione portandolo ai suoi limiti di resistenza. Era interessante imparare da quelle culture come adoperare il mio corpo durante le rappresentazioni. Potrei dire che la mia cultura è stata importante, ma dall’Est ho imparato a rapportarmi col corpo in una maniera più profonda.

 

Le memorie personali sono da dimenticare o da salvare?

Da salvare!

 

…Aiutano ad affermare la tua identità o sono un peso… angosciante?

Il mio lavoro consiste nel costruire il modo di presentarmi al pubblico. Quindi, non è che io tratti con le cattive memorie o la trasformazione delle diverse energie… A me interessa indicare certe situazioni della condizione umana…, offrendo al mondo un messaggio positivo.

 

Nelle tue performances cosa c’è di progettato?

Oh, varie cose! Ogni rappresentazione contiene idee diverse: l’idea delle relazioni, l’idea del dolore, l’idea di esaltare i limiti, mentali e fisici, di aprire nuove frontiere, di dare più attenzione al presente.

 

Negli anni hai attuato varie performances fisicamente piuttosto dolorose… Ricordo bene la prima che ho visto, quella con Ulay a Kassel, mi sembra nel 1976.

La sofferenza, però, finisce quando termina l’azione.

 

Le performances sono replicabili?

All’inizio della mia carriera, negli anni Settanta, ritenevo che le rappresentazioni non dovessero essere mai ripetute; che si dovessero fare una sola volta. Più tardi, specialmente in questo nuovo secolo, ho pensato che le rappresentazioni possono essere ripetute… Anzi, doveno, perché diverse persone le vedano e non siano escluse. Le rappresentazioni sono un’arte in divenire, nel tempo. Dunque, credo che sia molto importante ripeterle in una diversa nazione, nel confronto con una differente cultura, per avere altre reazioni.

 

Quindi, ogni azione ha una funzione liberatoria e rigeneratrice.

Sì, perché la rappresentazione crea un dialogo di energie e questa è la forma più diretta di espressione.

 

Ritieni di aver scoperto la tua vera identità?

Assolutamente, non solo per me, ma anche per il pubblico che si identifica in me e passa, attraverso il processo di rappresentazione, allo stato di liberazione.

 

L’esperienza artistica ti dà la possibilità di conoscerti e di rivelarti in diretta?

Con la performance, sì. Sto ancora cercando…; ci sto lavorando sopra.

 

Passioni, amore e sessualità sono componenti essenziali anche per fare arte?

Certo, l’energia sessuale è la sola che abbiamo.  E questa energia può essere trasportata e trasformata in creatività. Dipende da come si usa.

 

Perché senti il bisogno di misurarti con ciò che ti fa “paura”?

Perché se siamo spaventati o soffriamo, o siamo in pericolo, viviamo il tempo qui e ora; altrimenti vivremmo sempre nel passato o nel futuro, senza essere mai realmente consci del presente. Solo con la paura, la sofferenza o il pericolo riusciamo a focalizzare il momento attuale.

 

Con il linguaggio del corpo modelli il pensiero come vorresti?

Sì, il corpo è il mio unico mezzo di espressione.

 

Le tue performances, fortemente autoproiettive, hanno qualcosa in comune con l’autoanalisi?

No. Se fossi uno psicoanalista, vedrei tutto come analisi, ma sono un’artista, dunque, considero tutto come forma d’arte.

 

…Assumono un carattere sperimentale sulle possibilità espressive dell’individuo?

Sperimento tutte le volte: ogni nuova esibizione è un esperimento.

 

Credi nel destino o tendi a ribellarti alle “forze superiori”?

Oh, una combinazione di entrambi!

 

Rivendichi diritti umani per te e per gli altri?

Assolutamente sì!

 

Hai sempre creduto in un rapporto simbiotico con la Terra. È ancora possibile per l’essere umano stabilire una relazione autentica con la Natura?

Io penso di no, ormai è tardi. Noi dipendiamo troppo dalla tecnologia.

 

Come vedi il futuro in rapporto all’invasiva globalizzazione?

Ritengo che, in generale, stiamo vivendo un momento particolarmente critico:  politicamente, socialmente e anche in rapporto all’ambiente. Penso che la sola via per un cambiamento reale di tutto ciò sia quella di prendere coscienza di certe problematiche e di evitare di farci manipolare dai governi.

 

La tua attività di insegnante ti dà soddisfazioni?

L’insegnamento non è solo soddisfacente, è parte del mio lavoro. Essere artista è un dovere, e occorre farlo senza restrizioni; poi, è positivo supportare e ascoltare le esperienze delle giovani generazioni.

 

La settimana della performance al PAC di Milano ha comportato una lunga preparazione?

Sì, ho lavorato a lungo con i miei studenti e stiamo operando ancora… Alcuni stanno con me da quattro, cinque, sei anni e stiamo sviluppando diverse idee in forma di rappresentazione.

 

C’erano anche momenti non programmati?

Sì, non solo in quel luogo, ma sempre. Nelle performances si può pianificare tutto, ma ogni volta c’è qualcosa di inaspettato, dovuto alla presenza del pubblico e alla reazione durante la rappresentazione.

 

Oltre a insegnare le tecniche generali e l’uso dei media, cerchi di far emergere le potenzialità di ciascun allievo?

Sì. Prima di tutto insegno loro il rappresentare, ma anche l’uso di altri mezzi come il film, la fotografia e il computer: qualunque cosa necessaria ad esprimere idee. Il concetto di base è: quanto più possibile, l’uso del corpo; quanto meno possibile, della tecnologia.

 

Per te è anche un’occasione per trarre idee?

Sì, gli studenti apprendono da me, ma anche io da loro.

 

A Kassel ripeterai “living installations” attuata a Milano o ci saranno delle novità?

Tutte le pieces di Kassel saranno nuove, anche perché sono in relazione allo spazio e alle caratteristiche architettoniche del Museo Fridericianum.

 

Nel gruppo ci sono allievi che potrebbero esibirsi autonomamente?

Certo, ci sono studenti capaci di rappresentare individualmente, e l’hanno già fatto,  ottenendo premi internazionali molto importanti. Esistono vari casi: da chi è molto avanzato, a chi è agli inizi. Così per tutti c’è la possibilità di ricevere stimoli e di apprendere.

 

Com’è andata la performance collettiva della Class of Marina Abramovič alla Biennale di Venezia?

Molto bene. La TV tedesca ha detto che era l’unica iniezione vitale e stimolante della Biennale. A settembre verrà pubblicato da “Charta” un libro intitolato “Marina Abramovič student body”:  550 pagine interamente dedicate al mio insegnamento e al lavoro dei miei studenti. Sarà il primo libro nel suo genere.

A cura di Luciano Marucci

[«Juliet» (Trieste), n. 114, ottobre-novembre 2003, pp. 36-37; traduzione dall’inglese di Marco Piotti]

 

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