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CRISTIANO PINTALDI il terzo occhio PDF Stampa
Luciano Marucci: Nell’esaminare i tuoi lavori non si può fare a meno di accennare alla speciale tecnica da te ideata e praticata, tanto più che essa finisce per assumere valenza linguistica-ideologica-concettuale.

Cristiano Pintaldi: Noi siamo abituati a vedere la realtà tridimensionale fatta di materia, ma ce n’è un’altra di luce: quella della televisione, che ci mette in contatto con la realtà. Ormai il controllo di ciò che sta accadendo nel mondo passa attraverso questo mezzo di informazione. Io lavoro con la luce riflessa, disegnando qualcosa che originariamente è fatta di luce diretta, e nei quadri sintetizzo le due realtà. È come se creassi il simbolo di quella tridimensionale e di quella luminosa. Per poter visualizzare pittoricamente le immagini, utilizzo la tecnica del pixel in cui i colori si comportano al contrario rispetto allo schermo della televisione. Quindi, la doppia componente è la parte più interessante del mio lavoro e ciò che lo rende pressoché unico nel contemporaneo è il fatto di essere basato su una manualità molto caratteristica, relazionata alla mia esperienza. In verità, il mio quadro è una elaborazione quasi classica, tipica del passato. Un tempo, non essendoci la macchina fotografica, il cinema e il resto, per arrivare al realismo si doveva ricorrere alla pittura. Il mio è un realismo concettuale. Unendo la realtà reale a quella virtuale, creo un simbolo nuovo, sempre legato al numero tre che è quello del triangolo e anche dell’opera in pixel composta di tre ‘parti’ che alla fine si unificano.

 

Il tuo procedimento manuale ‘neo-divisionistico’ contraddice la rapidità della tecnologia, da cui peraltro deriva, associata al metodo industriale, alla serialità e allo stereotipo. Rientra in questo atteggiamento la misurata diffusione sul mercato del tuo prodotto creativo?

Facendo dei quadri con un procedimento lungo e complesso, produco poco. Ma non si tratta di una scelta ‘politica’ sul numero di opere da immettere sul mercato. Nel mio caso si ha un paradosso: l’immagine che passa in cinque microsecondi su uno schermo televisivo, comporta il lavoro di un mese e più. In fondo lo stesso paradosso caratterizza l’arte in generale. Penso a quando si attribuisce un valore enorme a un oggetto da buttare. Vedi il ready-made e la Pop Art.

 

I tuoi pixel, che si riappropriano dell’immagine prelevata dal mezzo televisivo per filtrarla, ‘devono’ creare una certa ‘distrazione’ dalla figurazione originaria?

Qual è la figurazione originaria? L’attrice del film, il film stesso o il quadro? Ci sono tre possibili realtà, di cui la terza è il simbolo delle altre due. Il mio quadro si riappropria dell’idea di materia dando forma al ritratto del personaggio filtrato dal mezzo televisivo. In altre parole, nasce come realtà tradizionale, si sposta in una realtà virtuale e torna ad essere immagine ispirata al mondo della televisione.

 

La definizione del soggetto dipende dalla sua grandezza? Muta pure con il variare della dimensione del quadro in rapporto alla messa a fuoco retinica dell’immagine?

Direi di sì. D’altronde è così anche per gli schermi televisivi. A seconda della grandezza del pixel, è possibile visualizzare i dettagli. Ovviamente un quadro piccolo non permette un’immagine complessa come può avvenire in uno grande.

 

Il meccanismo ottico è più frutto di calcolo o di esperienza?

Di esperienza, anche se c’è un calcolo iniziale. Io, in concreto, dipingo in momenti diversi il colore che si vede alla fine. È impossibile prevederne l’esattezza.

 

Adotti una tua ‘formula’ per trovare la giusta dose di luce nel colore, di primaria importanza nella costruzione dell’opera anche in senso simbolico?

In qualche modo sì. Sono abituato a pensare ai colori che uso come se fossero dei numeri. Ad esempio, 1 e 4 formano il 14. Per ragioni mentali mie, c’è sempre una relazione tra colore e numero.

 

Il risultato finale è prevedibile?

No, il contrario. È come dipingere ad occhi chiusi o al buio.

 

Ci possono essere anche delle sorprese negative?

Purtroppo, sì.

 

In tal caso cosa decidi?

Se il quadro non è ritoccabile, lo butto via.

 

Cosa si perde nella riproduzione delle tue opere?

Certe volte anche tutto. Utilizzando il pixel, quando le mie immagini si riproducono sugli schermi televisivi, il quadro torna ad essere immagine di partenza. È impossibile rivedere un mio quadro in televisione, perché i pixel si sovrappongono. Zummando tende a visualizzarsi, però l’impatto reale non c’è mai. Il colore, invece, è trasmesso dalla televisione correttamente. Nella stampa si ha l’inverso. I pixel sono talmente ridotti che, passando da RGB (red, green, bleu), si ottengono altri colori. Questo stabilisce un rapporto semiconcettuale, perché l’opera non è riproducibile con i mezzi dai quali deriva; deve essere vista dal vero.

 

Subito dopo la prima impressione data dalla raffinata tecnica, l’attenzione spesso viene polarizzata dalla presenza - allucinata e magica -  dell’occhio iperumano che si sovrappone a quello oggettivo del tubo catodico… Vuoi denunciare la condizione di individui senza anima, che vivono al di fuori di se stessi?

Sarà luogo comune dirlo, ma l’occhio è lo specchio dell’anima; l’organo che smaschera di più l’io legato all’idea, sempre presente nel mio lavoro, dell’uno e del tre. In un’opera che ho portato alla recente ArteFiera di Bologna, il triangolo è la piramide del terzo occhio che tutto vede. In qualche maniera ha un rapporto con il divino, con l’antico concetto della geometria sacra rintracciabile in tutte le religioni. Se uno riuscisse a leggere fino in fondo il quadro, si accorgerebbe che simboleggia quello che ha davanti: l’immagine formata sia dall’uno che dal trino. A una certa distanza scegli tu cosa guardare e hai la percezione di ciò che caratterizza la realtà. Noi la viviamo in modo materialistico e non facciamo mai attenzione alle simbologie che vediamo legate principalmente ai sogni. Ma io credo che la vita sia un sogno.

 

Intendi dire che quell’occhio vede oltre il visibile?

In linea di massima sì, in quanto sintetizza le tre fasi della realtà, con l’elemento ripreso, trasmesso e riprodotto. Ma è anche un occhio che guarda qualcosa che sta accadendo, congiunto all’evoluzione della specie umana. Arriviamo a velocità folli rispetto al passato e non si capisce bene dove stiamo dirigendoci. Sembra solo un accrescimento tecnologico, invece si sta modificando qualcosa all’interno della realtà stessa.

 

In pratica, con l’intervento sull’immagine mediale determini una trasformazione di senso…

Per certi versi lo capovolgo.

 

…Interpreti la realtà, assumi un atteggiamento responsabile, se non addirittura critico…

Tento di fare questa operazione con il doppio simbolo di cui ti parlavo, attraverso un unico ciclo, quello della televisione, che proviene dal mondo reale prodotto da una tecnica ancora più reale.

 

Auspichi per te e per gli altri un mondo indipendente dall’attuale sistema comunicativo?

…Un mondo migliore. E spero che si arrivi a costruirlo.

 

Segui da vicino gli avvenimenti politici ed economici che, in buona misura, sono alla base delle problematiche culturali ed esistenziali di cui stiamo discutendo?

Cerco di capire cosa c’è intorno a noi.

 

Preferisci rimanere neutrale?

Mi sento molto osservatore. Il compito dell’artista è di rappresentare se stesso, la propria realtà, il mondo che lo circonda, la società in cui vive.

 

Rientriamo in te. Da dove proviene l’alieno di cui hai parlato in altre occasioni?

Noi viviamo in una realtà più complessa di quanto siamo abituati a considerare. Questo spiega perché non sia possibile riuscire a vedere e a fermare l’alieno. Non è tanto lui che deve venire qui, quanto noi che dobbiamo arrivare là. Esistono due modi di guardarlo: uno, in cui è lo stereotipo dell’essere umano privo di amore, avanzatissimo tecnologicamente ma ormai senza anima; il secondo, fatto di luce, proveniente da un’altra dimensione nella quale è chiaro il rapporto dello stesso con l’universo circostante, con la sua realtà fatta di sogno. Da un religioso potrebbe essere definito un “angelo” o uno “spirito.

 

Assomiglia a un essere disadattato?

Sì, perché vive in un mondo che non gli appartiene. Oggi siamo proiettati verso la ricerca dell’avanzamento tecnologico. L’occidente di più, ma tutto il pianeta va in tale direzione. Secondo me, questo orientamento impedisce la visione profonda di ciò che siamo e dell’universo. Io sono attratto dalle problematiche politico-sociali, ma nell’arte mi interessa l’idea del sublime, di qualcosa che le trascende.

 

Ti consideri più realista o visionario?

Mi considero un realista della visione, quando considero la realtà un sogno.

 

Oltre il repertorio dei mass-media usi il loro stesso metodo persuasivo, anche se ne strumentalizzi la freddezza, facendo prevalere l’essere sull’apparire

In fondo, sì, perché produco dei simboli come i mass-media. L’immagine data, per sua natura, può avere un aspetto estetico forte e, a volte, svelare un valore ideologico e concettuale ancora più forte. Chiaramente, è preferibile l’essere all’apparire.

 

La scelta del fermo-immagine da elaborare scaturisce da un’osservazione… mentale?

Sì, è uno spazio mentale nel quale il tempo si ferma all’interno di un’azione chiave che rimane misteriosa come una porta che si sta aprendo su qualcosa che ancora non conosciamo.

 

L’intenzionalità etica è sempre presente?

Direi di sì.

 

In molti ‘dipinti’ è evidente un cortocircuito fra componenti antagoniste: artigianalità/tecnologia; reale/virtuale; tradizione/modernità; partecipazione/estraniamento; memoria/futuro; globalità/ identità… La conseguente ambiguità percettiva ha la funzione di provocare una riflessione attiva?

Nelle mie opere ci sono varie componenti contrapposte che determinano senz’altro l’ambiguità percettiva di cui parli, tanto che puoi vedere una cosa che normalmente non noti. Vedi bianco ciò che da vicino è lontanissimo dal bianco. Il mio quadro genera quasi un inganno ottico, creando una riflessione attiva, perché, più la percezione è forte, più tutte le sue componenti riescono a venire fuori e offrono la possibilità di andare oltre la superficie.

 

Ogni tanto realizzi lavori senza prelievi dall’esterno, del tutto soggettivi e inventati. Qual è il movente?

Dipende dalle emozioni, dall’idea che io stesso voglio comunicare. Scelgo immagini a seconda delle problematiche che intendo affrontare. Se nel blob televisivo non riesco a trovare una certa immagine, piuttosto che cercarla, la costruisco io con la telecamera o la macchina fotografica digitale. La nostra realtà sta sempre più filtrando attraverso il digitale. Il videotelefono, il computer, l’apparecchio fotografico, la telecamera hanno uno schermo, perciò è più facile rimanere ingabbiati dentro questa realtà.

 

Tutti i lavori su carta sono tradotti in quadri?

Quasi tutti.

 

Cosa lega il ciclo dei “Crop Circles” alle altre fasi?

Queste opere rientrano in elaborazioni connesse a internet. Seppure in modo virtuale, rimandano all’idea di paesaggio. Anche qui i soggetti sono simbolici. C’è una prospettiva nella quale si intravede una sorta di landscape artificiale. Raramente la ricerca sul paesaggio è stata condotta in questi termini. Mi interessava dare l’idea di finestra virtuale che si apre su un’altra dimensione. Anche questa tematica si ricollega al mondo degli alieni per quello che di strano e di profondo sta accadendo nella nostra realtà. Purtroppo, c’è pochissima attenzione per certi fenomeni in apparenza inconsistenti, ma positivi, se non altro, per la loro spiazzante ambiguità.

 

In base a quali stimoli si evolve la tua attività?

A tutti gli stimoli della vita, del mondo del lavoro; alla capacità di riflettere sulla realtà; alle mie esperienze di uomo, padre, artista. Non c’è una cosa precisa che mi spinge a fare arte e ad andare avanti...

 

Ovviamente è un percorso che tiene conto anche della qualità estetica…

È inevitabile, essendo un artista, ma anche un amante dell’arte, del design, dell’architettura…

 

Per chiudere, fatti una domanda!

È difficile, penso di aver detto tanto… Potrei chiedermi cosa voglio ottenere come ambizione massima e ti sintetizzo la risposta che rimanda alle altre: riuscire a spostare la percezione dello spettatore sulla doppia natura della realtà.

A cura di Luciano Marucci

[«Juliet» (Trieste), n. 117, aprile-maggio 2004, pp. 36-37]

 

 

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