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CLAUDIA PEILL PDF Stampa

Claudia, a distanza di anni, vorrei verificare alcuni aspetti del tuo lavoro.

Mi tornano alla mente le immagini fotografiche frammentate di contesti identificabili, soggettivate e rese evanescenti; l’essenzialità e il rigore compositivo dei tuoi quadri.

Anche se la tua opera è in continua trasformazione, risulta sempre riconoscibile. Sembra che le  motivazioni di fondo dell’investigazione siano ormai consapevoli, se non del tutto definite…

Amo la sintesi e il rigore; inseguo con ossessione l’idea di una verità, impossibile da trovare forse, ma che corrisponde alla necessità di ricercare un perché. Quindi, mi perseguita da sempre l’attrazione verso ciò che è più indefinibile e invisibile: il vuoto e l’assenza. Forse come condizione esistenziale.

 

La prima scelta dei singoli soggetti o delle tematiche affrontate da cosa è indotta?

Attingi più dall’esterno o dalla memoria personale?

Osservo l’esterno con dei filtri mentali, culturali, percettivi, dove la memoria è memoria collettiva primitiva, ma comunque sempre un punto di partenza. Indago quel processo che ci permette di selezionare dalla realtà una piccola banalità che, fissata nella memoria, faccia affluire platonicamente un sapere più ampio e profondo.

 

Nelle tue realizzazioni si avverte la ricerca di equilibri: tra visibile e invisibile; percezione visiva e concettuale; distacco analitico e partecipazione emotiva; utilizzazione del mezzo meccanico, manipolazione pittorica ed elaborazione mentale…

È continuamente un procedere dialettico. È ripetutamente un incontro e un distacco con il soggetto. Il valore dello sdoppiamento, del taglio  e della separazione che riflette il suo doppio è molto importante come processo conoscitivo, che richiama la partecipazione dello spettatore. Ogni volta che inserisco un vuoto, una cesura, una parte muta, mi riferisco alla necessità di comunicazione rotatoria tra artista, opera  e spettatore.

 

Ti proponi costantemente di riportare l’attenzione sulle realtà non apparenti?

Apparente e non apparente, visibile e invisibile appartengono alla stessa unicità. Il vuoto è quella parte che è muta e cieca, ma racconta di sé. E, lo sappiamo, il silenzio esige un’attenzione particolare di ascolto. Ma dove voglio misurarmi è proprio nella profondità delle cose fino al punto di esserne inghiottita.

 

Cerchi anche di dare un senso allo stereotipo del quotidiano cogliendone i momenti più vitali?

L’isolamento di un dettaglio, a volte anonimo e quasi invisibile, finisce spesso per costituire il vero centro dell’opera. Nelle piccole cose quotidiane si nascondono i grandi gesti. La mano giottesca è sempre la stessa, stereotipata in ogni rappresentazione, ma assume un valore assolutamente diverso e originale ogni volta che cambia il contesto che la rende protagonista.

 

Quindi, non c’è soltanto una registrazione-speculazione di comportamenti altrui per finalità artistiche…

Mi interrogo sempre sul valore dei comportamenti altrui, non dò mai nulla per scontato.

 

Eviti il giudizio sulle esteriorità?

Non esprimo giudizi, non do risposte; mi pongo solo delle domande. Penso che l’arte oggi debba  avere questo ruolo.

 

Vuoi stimolare l’introspezione e la riflessione sulla condizione esistenziale!?

Le mie opere hanno tanti filtri che andrebbero attraversati per scoprire e analizzare qualcosa che appartiene a tutti noi.

 

Nel procedere, l’opera riflette in misura crescente il tuo stato d’animo, i sentimenti?

Non mi piace esprimere i miei disagi intimi o raccontare il mio ultimo ‘incubo’; cerco soltanto di evocare quello che si nasconde dietro ai nostri sogni e di stimolare delle emozioni a cui tutti possano partecipare. Faccio della mia esperienza un filtro, per renderla comunicativa ed espressiva agli altri.

 

…Testimonia maggiormente il desiderio e la capacità di esprimerti concettualmente e, a un tempo, poeticamente?

La sostanza e la forma non possono separarsi. L’arte - come ho già risposto una volta - è per me un tutto: contemporaneamente corpo, eros, energia e poesia.

 

In definitiva, cosa rappresenta per te l’opera d’arte?

Una pausa. Un momento in cui stabiliamo il nostro tempo e il nostro perché.

 

L’isolamento, la rarefazione o l’assenza dell’immagine fisica, la sua precarietà a cosa alludono?

L’immagine si astrae dalla realtà e diventa altro nella frammentazione e nell’isolamento di un dettaglio, come nella sua negazione, rarefazione, assenza. Lo scatto, il frame permette di afferrare l’istante dal flusso del divenire e il tempo si blocca, ma allo stesso tempo si dilata. Così l’immagine si libera della temporalità. Diventa immortale.

 

…Solo passaggi senza approdi?

Il frammento, il taglio sono collegati di nuovo all’idea del vuoto dove l’essere umano è sospeso nella tensione del volare o del cadere.

 

Nonostante la diversità dei cicli, pare che tra le opere così indeterminate ci sia una consequenzialità estetica e narrativa…

Cerco di cogliere la nostra vita che ci confonde; ci perde e, appunto, ci fa precipitare, ma a volte anche volare… Noi siamo nel mezzo, in bilico tra una scelta e un destino. È bene che le zone mute, i vuoti inespressi siano luogo di proiezione del nostro futuro, quell’ignoto spaventoso a cui bisogna andare incontro senza paura.

 

Dopo l’esposizione “Chi vola-vuole” alla Galleria Martano, a cosa ti stai dedicando?

Ammetto che il tema della sospensione è molto forte e sento ancora l’esigenza di indagare e andare oltre.

 

A cura di Luciano Marucci

 [«Juliet» (Trieste), n. 122, aprile-maggio 2005, p. 46]