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GÜNTER BRUS PDF Stampa

L’esauriente retrospettiva itinerante di Günter Brus, approdata alla GAM di Bologna, ha consentito a molti di approfondire la sua forte identità e l’evoluzione della produzione -  di grande qualità e intensità espressiva -  accrescendo l’interesse per la sua molteplice attività creativa.

 

Brus, ora che ci conosciamo meglio..., mi permetto di darti del “tu”, per essere “diretti” come piace a te. Penso che l’esposizione italiana sia stata utile anche a te per rivisitare-analizzare il lavoro compiuto fin qui...

La retrospettiva di Bologna non aveva un carattere tipicamente “italiano”. Si differenziava solo minimamente da quella di Vienna, Graz e Zug. Dopo Bologna, verrà presentata nei Musei di Barcellona, Madrid e Colonia, tematizzando così tutta la mia opera fino ad oggi.

 

Quindi, sei soddisfatto.

Fino a questo momento è la mostra più riuscita di tutte le altre. Il direttore Peter Weiermair ha ottenuto ottimi risultati, anche grazie alla genialità della curatrice Monika Faber.

 

Il percorso espositivo era consequenziale? C’erano delle ‘contraddizioni’...?

Chi osserva attentamente i miei lavori non può scoprire in essi le “contraddizioni”.

 

Non temi la storicizzazione delle istituzioni museali?

Non ho mai avuto dubbi riguardo la “storicizzazione”; non conosco nessun artista che non sia felice di essere “maturo” per l’Enciclopedia d’Arte.

 

Vi sono relazioni ‘funzionali’ tra le opere di oggi e quelle di ieri?

Sono sempre stato un disegnatore e un poeta. Tuttavia, nel periodo relativamente breve dell’Azionismo (sei anni), ho necessariamente frenato l’impulso di scrivere e disegnare.

 

In genere, quale significato attribuisci a una mostra personale?

Apprezzo sia le personali che le tematiche-intelligenti in cui è incluso il mio lavoro.

A chi è più necessaria l’opera che realizzi ed esponi?

Dal punto di vista commerciale ne approfittano il mio bilancio domestico e quello dei miei galleristi. Dal punto di vista ideale, naturalmente, se ne avvantaggiano i visitatori e maggiormente i giovani, almeno spero.

 

Che ti ha insegnato la storia dell’arte e quanto devi al tuo vissuto?

Ho fatto le mie prime esperienze nelle scuole d’arte; poi, dal momento in cui l’accademismo non ha più sostenuto il mio forte istinto di libertà, ho continuato istruendomi sui cataloghi dell’Arte Moderna Internazionale.

 

La formazione e le radici territoriali sono stati decisivi per determinare il tuo indirizzo?

Sono un figlio della provincia austriaca che si è disfatto delle sue solide radici a Vienna, a Berlino e in Spagna.

 

La vitalità di Schiele e Kokoschka erano già nel tuo Dna?

Non esiste in me uno speciale “sangue viennese”; piuttosto, considerate le circostanze in cui sono vissuto e la conseguente educazione, c’è una specie di massa ereditaria della mia generazione.

 

I rapporti con Rainer e Nitsch sono stati costruttivi?

Conosco un buon numero di artisti con cui ho un buon rapporto. Naturalmente ne fanno parte Nitsch e Rainer perché con le loro innovazioni hanno oltrepassato tutti i limiti per avanzare nella nobile terra degli scandali.

 

Cosa ti accomunava a Beuys?

Ne ho apprezzato il talento che gli ha permesso di sviluppare una propria estetica primordiale, ma, d’altra parte, era anche lui un pesce secco germanico.

 

Le simbologie e l’aura romantica allontanano dal vero reale?

Che cosa è la realtà? La patria o la lingua madre? La realtà è sempre stata una moda destinata a passare. La vita quotidiana non fa regola, e neanche il realismo o il fotorealismo sono adoratori del cosiddetto “reale”. L’Arte pone sempre in discussione la realtà, non ha importanza sotto quale punto di vista: simbolico, romantico, razionale o astratto.

 

Come entra il sociale nella tua soggettività?

Che cosa c’è di sociale in Mondrian…? Corrono a migliaia nei musei per vederlo: non è forse sociale questo?

 

L’informale degli esordi ti ha avviato all’introspezione e verso un contatto più vivo con la materia-colore e il segno?

Io mi muovo come una scimmia davanti alla tela per diventare finalmente un uomo.

È lecito dire che il tuo “azionismo” è sorto dalla ‘gestualità’ di quel momento?

“Un Azionismo puro” lo fanno solo gli ubriachi nelle osterie. Le mie azioni sono state sempre conseguenze di riflessioni teoriche che ho concepito come partiture.

 

La presenza del pubblico e dei fotografi nelle azioni corporali non ti distraeva?

I miei colleghi ed io abbiamo sempre voluto la presenza della stampa, ma non ricordo di aver mai visto più di un giornalista durante le nostre azioni o che siano state presenti più di una decina di persone. Più tardi, quando le azioni divennero “popolari”, ho agito escludendo il pubblico, concentrandomi e raccogliendomi completamente in me stesso.

 

Che ruolo assegnavi alla sofferenza al tempo delle azioni autolesionistiche?

Non ho mai provato dolore fisico durante le mie autolacerazioni, come i guaritori o quelli che corrono sul fuoco.

 

Proseguire per quella strada era rischioso...?

Dopo le mie azioni venne di moda il cosiddetto Azionismo Estremo: un sottoprodotto senza speranza che ho consegnato ai chirurghi.

 

Nel tuo caso le ‘lacerazioni’ stimolavano anche gli spettatori a ‘sentire’?

“Zerreißprobe” (Prova di lacerazione), la mia ultima azione, ha suscitato una grande impressione, come si suol dire.

 

L’azione artistica può aiutare a ‘conoscere?

Con le mie azioni non avevo alcuna intenzione di migliorare la comprensione per l’Arte. Io facevo Arte.

 

Con le esibizioni ‘oscene’ e ‘blasfeme’, con cui combattevi apertamente le abitudini borghesi e i tabù, hai raggiunto dei risultati?

Che cos’è oggi osceno o blasfemo? La società ha inalato i miei progetti come se non si fosse mai scandalizzata. La società non ha alcuna memoria morale.

 

La teatralità è una componente irrinunciabile?

L’aspetto teatrale delle mie azioni era una diramazione del pensiero di Artaud e del Living Theatre, ma parallelamente esistono molte altre azioni silenziose e statiche che, purtroppo, nella loro ricezione vengono sempre, e sempre di nuovo, relegate in retroscena.

 

Dal tempo di “Kunst und Revolution” del 1968 ti sei progressivamente allontanato dall’ “autopittura” delle azioni in pubblico piuttosto sovversive e provocatorie. Sei ancora in conflitto con il potere politico?

Il mio apporto per “Kunst und Revolution” non aveva più a che fare con la pittura nel senso comune della parola. Avevo una tale rabbia in corpo da potermi esprimere ormai solo con mezzi estremi di demolizione dei Tabù.

 

Con le esperienze “Zerreißprobe” e “Bild-Dichtungen” (Poesia pittorica) sei giunto a una convinta attività letteraria; dall’uso del corpo come quadro vivente al linguaggio scritto, ai mezzi espressivi tradizionali per realizzare una sintesi iconografica e un’interazione con l’osservatore. Non ci devono essere limiti alle contaminazioni linguistiche?

Le contaminazioni linguistiche costituiscono una parte importante della mia produzione letteraria, anche se qualche volta alcune definizioni da me inventate sono difficilmente traducibili in altre lingue.

 

Hai avvertito il bisogno di supportare l’immagine con la parola scritta anche per ragioni comunicative?

L’immagine non è l’illustrazione della scrittura, così come la scrittura non è la descrizione dell’immagine. Nel migliore dei casi la scrittura e l’immagine si amalgamano in un’aura comune.

        

“Irrwisch” (Argento vivo) andava oltre la rappresentazione del reale?

Nell’insieme è un’illustrazione delle torture reali e immaginarie; tuttavia, nella parte conclusiva del “Pfaueninsel” (l’isola dei pavoni), gli incubi vengono sostituiti dai “sogni paradisiaci”.

 

Sei stato ‘incoraggiato’ da Freud e dall’Esistenzialismo?

Il mio lavoro è stato ispirato da un gran numero di scrittori, come Freud, Camus, Sartre e, nel periodo dell’azionismo, sono stati per me di grande importanza Henry Miller, de Sade e gli anarchici.

 

Ti sei dedicato pure alle installazioni?

No, e poi le istallazioni diventano presto antiquate perché, per troppa gente sono la sostituzione della mancanza di talento. Approvo le installazioni che vengono realizzate e che rimangono nel futuro come documentazione fotografica; sono da sostenere anche gli ‘arrangiamenti’ negli spazi pubblici perché, se con il passare del tempo risultano invecchiati, si possono sempre rimuovere. In tal caso i musei si chiederanno cosa fare di questi ferri vecchi che costano solo soldi per l’immagazzinaggio...

 

La tua opera esprime religiosità?

La dichiarazione di Nietzsche “Dio è morto” è stata ritrattata. È solo una morte apparente. Io sono ateo, ma in fondo non so dimostrare che tipo di ateismo abita in me.

 

Perché l’esibizione di sesso?

Le definizioni “sesso” ed “esibizionismo” non compaiono nel mio vocabolario artistico ma, per rispondere alla domanda, ti dirò che in tutta la mia opera il cosiddetto “Sesso esibizionista” ha soltanto una parte del 5-10%.

 

Ti senti concettualmente vicino ai dadaisti?

Mi sono sentito legato a loro solo nell’impertinenza. Nell’insieme sono stati una presenza di quei tempi destinata a non essere trasmessa alle generazioni seguenti.

 

Nella tua arte l’aspetto umano è sempre centrale?

Ogni artista serio nel profondo della sua anima è un umanista.

A cura di Luciano Marucci

traduzione di Gabriella Bleich-Rossi

[«Juliet» » (Trieste), n. 123, giugno 2005, pp. 40-43]

 

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