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GIANLUCA COSCI PDF Stampa
Quali vantaggi trai dal soggiorno londinese?

Uno dei primi è il fatto di frequentare i luoghi d’arte, non solo quelli più istituzionali e le grandi mostre, ma soprattutto le gallerie indipendenti. Poi trovo veramente stimolante che in certe zone di Londra siamo quasi tutti stranieri, dove le culture convivono senza grossi problemi. In questa mescolanza e diversità quasi non ti senti “all’estero”, è come se in qualche modo anche tu facessi parte di questo bellissimo mosaico umano.

 

Sei ancora in cerca del “tuo” habitat fisico e culturale?

Per quanto stia molto bene qui, non so se ci vorrei restare tutta la vita. In fondo Londra è un luogo abbastanza di passaggio, dove le persone si stabiliscono per poi andarsene... Ma per adesso non ci penso. Invece, credo che sia ormai acquisita la mia identità culturale. Non solo solidamente italiana, ma addirittura marchigiana, almeno in relazione a un certo modo di porsi come persona nel rapporto col mondo. Nelle Marche abbiamo (o meglio, avevamo, fino a poco tempo fa) un profondo senso di umiltà contadina e forse anche un sotterraneo pessimismo, sicuramente antecedente al poeta di Recanati. La mia identità artistica, però, è abbastanza emiliana: mi porto ancora dentro le frequentazioni e le amicizie dell’Accademia di Bologna. Ho avuto certamente influenze inglesi, ma queste sono state come degli arricchimenti ad un’identità in qualche modo già definita.

 

Riesci ad avere incontri/confronti con altri operatori visuali?

Solo dopo aver frequentato un master in arti visive qui a Londra, sono entrato in contatto con altri artisti, ma in realtà i miei rapporti in questo ambito sono limitati a poche persone, sia in Italia che in Gran Bretagna. Naturalmente intendo reali scambi, non saluti da inaugurazione. Una di queste persone è John Cussans che, con le sue lezioni di teoria visiva, mi ha aiutato a mettere in discussione le realtà che ci circondano (artistiche e non) a favore di un approccio più critico verso l’esterno e verso noi stessi.

 

Per te il mezzo fotografico resta il più congeniale?

Direi di sì, anche se non è esclusivo. Dipende dal contesto in cui mi trovo ad operare e dall’idea che voglio trasmettere. In linea di massima sono più a mio agio con i mezzi che riescono a riprodurre la realtà nel modo meno ‘mediato’ possibile. Forse perché, nonostante tutto, ho bisogno di realtà, qualunque cosa la parola ormai significhi. La fotografia mi permette ancora di avere il senso di verità o di rivelazione - come direbbe Claudio Marra - a dispetto delle varie manipolazioni di Photoshop.

 

Dai lavori che ho avuto occasione di vedere ho dedotto che in questi anni dall’Io espresso dal corpo sei passato alla identificazione di interni impersonali della quotidianità e da questi ambienti seriali ai soggetti indeterminati di uno scenario urbano dai protagonisti invisibili. Un percorso autobiografico caratterizzato da una certa componente esistenziale, mediata da un sottile gusto pittorico che sottrae oggettività all’immagine di partenza.

Penso che in tutti i miei lavori ci sia, comunque, una buona dose di autobiografia, anche dove probabilmente è meno evidente o dichiarata. Questo è solo uno stratagemma, spesso per parlare d’altro; per raccontare, spero, qualcosa che vada al di là del puro dato personale o aneddotico. L’esistenzialismo è uno dei miei temi più ricorrenti, anche se ho sempre un certo pudore a parlarne perché è facilissimo cadere nella retorica o nei luoghi comuni, come può essere facile cedere a una certa fascinazione per il gusto pittorico verso il quale bisogna stare in guardia, perché non vada sopra le righe. Sono consapevole di questa componente, in quanto amo frequentare musei d’arte antica, pinacoteche e immagino che alla fine l’influenza si possa anche avvertire.

 

La scelta e l’elaborazione del soggetto è guidata da una ideologia?

Decido a tavolino cosa e soprattutto come fotografare o usare il video o altri strumenti. Una volta stabilito questo, esco e fotografo o riprendo quello che avevo in mente. Nel fare ciò il caso ha ben poco spazio. Il mio lavoro è profondamente “ideologico” (altra parola ormai tabù), proprio in quanto persegue un fine teorico o ideale che naturalmente va al di là della pura ricerca estetico-formale, senza però mai (o quasi) negarla.

 

Quindi, anche se non è apertamente dichiarato, non c’è distacco dalle problematiche socio-politiche?

Il mio lavoro è stato caratterizzato sempre da una certa tensione politica, sicuramente anche quando ne ero meno consapevole. In questo senso posso rileggere, col senno di poi, i lavori che facevo 10 o 15 anni fa, in cui l’autobiografia disarmata e a volte dolorosa era profondamente legata a rivendicazioni di stampo politico, dove il vecchio slogan degli anni Settanta, il personale è politico, aveva per me una grande attualità e freschezza.

 

Mi sembra che i diversi approdi tematici evidenzino una ricerca mentale-formale per la individuazione di senso da una condizione umana non ideale...

Direi che la condizione umana di per sé sia ben lontana dall’essere ideale, con le nostre miserie e debolezze. Ma, volendoci riferire alle tematiche di cui mi sono occupato, si può partire da un ulteriore punto di vista, ancora meno ideale, ovvero quello del ‘diverso’. In quanto gay, ho sempre vissuto, come si dice, sulla mia pelle e in prima persona il concetto di emarginazione ed estraneità. Conosco, quindi, il dolore della non appartenenza, del rifiuto spesso mascherato dall’ipocrisia. Da questo aspetto (sotto)privilegiato sono partito ad investigare quello che mi circondava per cercare di capire e dare senso alle cose, tentando di seguire le logiche che stavano dietro. Questo approccio è stato sempre distaccato e distante proprio perché fatto da un outsider, un emarginato, appunto. Nella volontà di mettere in discussione e, quindi, di denunciare, c’è l’intenzione politica a cui accennavo.

 

...Traspare anche il desiderio di comunicare la tua identità, sia pure attraverso non-luoghi del paesaggio metropolitano.

Il bisogno di esprimere la mia identità è forte, proprio perché si tratta di un’identità in qualche modo negata e isolata. E non mi riferisco necessariamente a quella legata all’orientamento sessuale, ormai abbastanza integrata ed accettata quasi ovunque in Occidente (tranne che dai fanatici religiosi o analfabeti, che sono un caso a parte). Piuttosto alludo a quelle identità che non rispondono ai modelli comportamentali e di stile di vita che più o meno sottilmente ci vengono imposti. Modelli in larga parte anglosassoni, quando non dichiaratamente americani, per i quali il consumismo è la ragione (religione) ultima e profonda del solito modello di vita vincente e benestante, dell’eterna bellezza e giovinezza, dove non c’è spazio per tutto ciò che non sia esattamente quello proposto. Inutile dire che anche in Italia questo mutamento o, come presagiva Pasolini, questo “genocidio culturale”, è irreversibilmente compiuto.

 

Vai maturando un modo diverso di dialettizzare col reale per un’immersione più profonda in esso?

Cerco di rapportarmi con il “reale” in modo da lasciare più spazio possibile a riflessioni minuziose, attente. Spero che i miei lavori stimolino domande aperte, quasi balbettate. Vorrei essere l’antitesi della dichiarazione sicura, dell’affermazione certa. Vorrei sottolineare il valore del dubbio e dell’incertezza. In questa lateralità e introspezione riconosco le mie origini contadine. Credo ci sia bisogno di un approccio simile per tentare di indagare il mondo che ci circonda, sempre più difficile da decifrare, dove la ragione sta dalla parte del più forte e dove, in ultima analisi, stiamo vivendo una regressione collettiva verso un imbarbarimento socio-culturale senza precedenti.

 

Nei lavori più recenti lo sdegno nei confronti delle ‘consuetudini’ è più sofferto che urlato; anzi pare represso, come se la conoscenza fosse negata...

Mi rendo conto che questo mio bisogno di affermare l’idea di un’identità “altra” ha preso la forma della consapevolezza di una lotta impari, in qualche modo persa in partenza, proprio perché ferocemente ostacolata e censurata. La lucidità nell’analizzare il reale spesso può avere toni di un “pessimismo cosmico” che non fa altro che rafforzare la condizione di diverso ed emarginato nella quale il dolore è un elemento obbligato.

 

Negazione = denuncia?

In realtà vorrei pensare a me stesso come a un iconoclasta. La negazione può essere certamente denuncia. Il togliere è il primo passo per costruire, e credo che mai come in questo momento abbiamo bisogno di cose in meno, non in più. Meno immagini, meno oggetti, meno parole, meno rumore. Dovremmo tornare a porci più domande, prima che possiamo iniziare a credere davvero che il senso di tutto sia quello che ci stanno raccontando.

 

Ma a cosa alludono quelle tue anonime visioni urbane così offuscate?

Più che offuscate hanno il fuoco concentrato solo in un punto preciso, ravvicinato. Quella focalizzazione vuol essere una metafora verso il ritorno alle cose reali, magari anche piccole ma vere, umili e non per questo prive di dignità. Il resto può rimanere anche fuori fuoco; benché forse più importante e vasto, è estraneo a noi soggetti/oggetti cosiddetti insignificanti e ultimi. La mia ambizione è ridare significanza e senso a una piccolezza - la nostra - che rivendica accettazione e riconoscimento.

 

Oggi l’artista dovrebbe manifestare dissenso verso le violenze che opprimono l’individuo?

Nel 1984 Günter Brus a una domanda analoga rispose memorabilmente che “l’uomo non può esistere né senza la lotta contro l’ingiustizia né senza le belle arti”. Credo che oggi questo sia più vero che mai, visto che ci ritroviamo a dover vivere in un momento storico tra i più bui e inquietanti della nostra storia recente, dove tra leader spirituali inesistenti e capi di governo criminali di guerra, l’unica voce rimasta a garanzia del diritto e del “senso morale” è quella di pochissimi intellettuali che, peraltro, quando trovano il coraggio di esprimere dissenso, devono lottare per la propria sopravvivenza professionale e, soprattutto, perché la loro voce possa essere ascoltata, considerato il continuo restringimento dei pochi spazi liberi di dissenso ormai rimasti.

A cura di Luciano Marucci

[«Juliet» » (Trieste), n. 124, ottobre-novembre 2005, p. 64]