Home arrow Viaggi nell'arte arrow Incontri arrow Jannis Kounellis nelle ombre della realtà e oltre (n. 135, dicembre 2007-gennaio ‘08)
JANNIS KOUNELLIS nelle ombre della realtà e oltre PDF Stampa
Nell’ambito del Rossini Opera Festival la Galleria di Franca Mancini di Pesaro annualmente cura una qualificante operazione chiamando un artista, tra i più rappresentativi del panorama internazionale, a realizzare opere relazionate a brani musicali rossiniani. Per il 2007 è stato invitato Jannis Kounellis che, ispirandosi al duetto da camera Li Marinari - compreso nella raccolta Soirèes musicales -  ha proposto lavori correlati fra loro e all’ambiente, impiegando, con evidente sensibilità pittorica, materiali e procedimenti che lo distinguono. Su una parete ha posto un trittico tridimensionale: due opere, di forte e gentile impatto, con veri strumenti musicali, imbavagliati e fasciati di nero, su lamiera di ferro grezzo; la terza con un mandolino lievemente poggiato su una sorta di oblò che lasciava intravedere un delicato merletto bianco. In un’altra parete un grande ‘quadro’, dal raffinato e dinamico effetto grafico-pittorico-plastico, composto di frammenti di carbone (come sassi) legati con spago a una tela applicata su supporto di ferro. Al lato opposto, vecchi tavoli di legno reggevano quattro alte lastre di ferro da cui scendevano delle vele con disegni della marineria marchigiana.

La composita installazione, dall’impianto scenografico volutamente contenuto, aveva creato uno spazio del silenzio e della negazione, poeticamente drammatico e provocatorio, che stimolava l’osservatore a guardare al di là delle apparenze e delle convenzioni. Dal canto loro le estranianti vele sollecitavano a viaggiare con l’immaginario per mari ideali.

Poiché avevo in programma di intervistare l’artista, ho approfittato della sua venuta a Pesaro e l’ho incontrato dopo aver visto in anteprima la mostra. Mi interessava soprattutto verificare cosa resta oggi delle sue idee di ieri. L’ho trovato disponibile e comunicativo rispetto agli anni giovanili in cui lo avevo frequentato. La conversazione, tra l’altro, mi ha dato modo di rivisitare alcune caratteristiche del suo percorso indipendente, incentrato sulla identificazione di realtà profonde attraverso acute analisi, geniali ideazioni ed elaborazioni. Mi riferisco a certe componenti che concorrono al raggiungimento di tale obiettivo: l’ideologia che focalizza le motivazioni del fare e partecipa all’evoluzione del linguaggio artistico; la simbologia che permette di ampliare la prospettiva evitando la descrizione; la mitologia evocata non per volontà di esaltare, ma per riportare all’attualità e nella totalità misteri, memorie e culture lontane; il paradosso, espediente utile a ri-destare l’attenzione, superare modalità e forme obsolete, salvando la sacralità dell’arte; la provocazione per mettere a nudo le contraddizioni, avversare più direttamente il manierismo, rimuovere i preconcetti che oscurano le verità e condizionano la soggettività; la teatralità messa in scena come parte costitutiva, per armonizzare il tutto ed emozionare gli spettatori...

Da quanto Kounellis andava esponendo ho dedotto che è coerente e rigoroso come un tempo; sempre legato alla storia dell’arte da cui deriva l’energia per andare oltre con autonomia e spirito rigenerativo. È trasgressivo, rifiuta ambiguità e mediazioni per stabilire un confronto dialettico con l’esistente ed essere alternativo.

Nella consapevolezza che le ultime generazioni hanno altri orientamenti, procede sostenendo con passione le ragioni fondanti della sua identità e, nonostante ci abbia abituato a scioccanti invenzioni fin dalla sua irruzione nel contesto propositivo della seconda metà degli anni Sessanta, le recenti realizzazioni plastiche continuano a sorprenderci.

In sostanza Kounellis intende ridare all’arte la centralità conquistata dai maestri del passato, i quali  hanno contribuito a edificare la nostra civiltà, prospettando una linea di sviluppo autentica dall’elevato profilo estetico ed etico. È stato uno dei primi a uscire dagli schematismi e dalla staticità delle esperienze bidimensionali, compiendo un liberatorio gesto di rottura con l’introduzione di un’altra specificità non assoggettata ai canoni tradizionali, veicolata da significativi elementi naturali e del quotidiano (persone, animali e vegetali vivi, materie e oggetti di uso comune); uno dei primi a interagire con lo spazio espositivo, costruendo capolavori site specific. Ed è rimasto un modello difficile da eguagliare per modernità e mobilità, intensità e qualità. Le costanti del suo lavoro non sono ripetizioni retoriche: esprimono la continuità e la circolarità di un processo che si espande da un nucleo propulsore. I suoi interventi in loco - rapportati fisicamente e culturalmente a spazi espositivi differenti e geograficamente distanti - pure se richiamano quelli precedenti, finiscono per esibire novità spiazzanti. Ovviamente egli non trascura la percezione e conferisce all’opera una giusta valenza lirica, capace di ricongiungere la forma-oggetto alle peculiarità pittoriche e di bilanciare la densità dei contenuti. Impegnato costantemente a compiere un’efficace azione di rinnovamento con principi antiborghesi e schivando gratuiti rimandi alla classicità, ingloba nella produzione altri generi e sconfina in territori inesplorati, dando al manufatto artistico una connotazione multisensoriale inedita. Contemporaneamente tenta di contaminare il presente al fine di promuovere un futuro più illuminato dalla ragione e dagli ideali. Infatti, il suo non è un atteggiamento che tende all’astrazione, al concettuale asettico: persegue con tenacia esiti visivamente tangibili finalizzando impulsi provenienti dal vissuto e dall’osservazione dei comportamenti all’interno del sistema socio-economico-politico.

Negli anni la sua proposta, rigida ma aperta, si è andata modificando; il messaggio è divenuto più chiaro; i mezzi espressivi si sono arricchiti e affinati.

A Kounellis, giunto alla maturità, va riconosciuto il merito di aver saputo offrire visioni più fresche, libere e intenzionali, peraltro senza rinnegare la Storia. Si può dire che, sfruttando potenziale creativo, pensiero divergente e tensione vitale, abbia compiuto un’epica impresa poetico-politica, un atto rivoluzionario che ha segnato un cambiamento epocale. Ancora oggi, con la radicalità della sua strategia, riesce a opporsi allo stereotipo e alle esteriorità, sebbene con mutata forza contestativa, dal momento che sono state recepite le sue precoci indicazioni e quelle di altri operatori della stessa area.

Il colloquio aveva preso avvio in maniera informale (a microfono spento) sugli eventi del Grand Tour d’Europa da me visitati. Quando gli ho fatto notare che a Documenta di Kassel mancavano gli artisti italiani, come pure a Skulptur Projekte di Münster, ci siamo soffermati a ipotizzare le cause della distrazione... Poi - alla presenza di Michelle Coudray - il discorso è scivolato sul progetto per l’arte contemporanea a Napoli. Da questi argomenti Gianni ha tratto stimoli per addentrarsi con partecipazione nella sua poetica. Così ho cercato di interromperlo meno possibile e ho iniziato a interrogarlo... solo dopo che si era sfogato.

 

Luciano Marucci: ...Qualche anno fa ho visto la tua opera e quelle di altri fuori e dentro le stazioni della Metropolitana di Napoli e ho notato apprezzamento e rispetto per quei prestigiosi ‘arredi urbani’.

Jannis Kounellis: A Napoli ho fatto moltissimo, anche l’installazione con i mobili in Piazza Plebiscito.

Michelle Coudray: Andrebbe detto con chiarezza che quello di Napoli è un esempio raro.

J. K.: Si sta parlando solo di rifiuti. Napoli non è solamente quello. Ci sono stati dei tentativi di cultura validi fin dall’epoca di Lucio Amelio e questo merita di essere ricordato. È una città che ha i suoi problemi e, malgrado la drammaticità in cui vive, i politici hanno fatto sforzi enormi per l’arte, non riscontrabili in altri luoghi, nel tentativo di proporre una cultura internazionale, non nel senso di portare i cinesi…, ma della gente che ha fatto qualcosa.

 

Sono state realizzate operazioni di rilievo e si continua con coerenza. Non si tratta di manifestazioni episodiche; si crede ancora nel sano potere della cultura.

Non possono non crederci. È un investimento giusto, non superfluo. L’Italia ha una sua identità da far valere.

 

Altrove non si fa niente o poco in questa direzione. Le cause possono essere politiche, mercantili…

...Sono molte, ma visto che a Kassel non c’erano italiani..., bisogna capire il perché.

 

Forse non è soltanto per difetto dei curatori.

Il curatore prende atto di una politica. L’epoca dell’estremismo è un po’ sorpassata, però non bisogna essere sempre d’accordo. Ci sono dei valori che occorre vivere; non difendere, ma viverli.

 

Spesso nei comportamenti mancano fede e coraggio.

Non solo; penso che ci sia un difetto politico.

 

Vuoi dire che non c’è incentivazione?

La politica è assente.

 

Basta guardare a come è stata trattata la cultura specialmente negli ultimi anni... Adesso mi pare un po’ diverso.

Ma non è sufficiente.

 

Hanno dimostrato di voler mettere all’angolo la cultura, snobbarla dando spazio all’effimero.

Non fare cultura che vuol dire!? È come snobbare il padre. Lo trovo infantile. Ci sono tanti avvenimenti spettacolari e la cultura bagna i loro piedi. La cultura è la presa di coscienza, il futuro. Parlare del futuro senza un’analisi di fondo significa prendersi in giro. È una questione di maturità popolare. E la politica per forza di cose è figlia, deve essere figlia del popolo. Anche gli artisti lo sono e va accettato il gioco sulla profondità. Questa può essere la variazione globalizzante. È una svista disegnata per delle ragioni politico-economiche. Intanto cerchiamo cosa si può fare. Lo dicevo a Franca [Mancini] l’altra mattina parlando del Viaggio in Italia di Rossellini. Anche La terra trema di Visconti cosa è se non il prendere coscienza del territorio che ti condiziona, delle opportunità che il luogo offre!? È così che si può pretendere l’internazionalità di cui si parlava.

 

Però ci sono tanti fattori che remano contro...

Moltissimi!

 

Quasi impossibile individuarli!

M. C.: Non ci sono più i pescatori...

J. K.: L’artista è il protagonista, il responsabile!

 

Pensi che l’artista possa assumere un ruolo di guida?

...Deve essere solo quello che storicamente è; deve operare tenendo conto della realtà.

 

...Pur seguendo il proprio immaginario.

L’immaginario non è una fuga; è una cosa profonda.

 

Deve sempre relazionarsi al reale?

Per forza, altrimenti diventa un calcolo linguistico in senso astratto, mentre il linguaggio è quella iniziazione che ti libera e ti permette di essere espressivo. Se no si fanno segnalazioni propagandistiche che non si sa nemmeno da che paese arrivano.

 

Però entra in campo anche la componente estetica...

Tutto serve, naturalmente. Bisogna avere orecchi e occhi aperti, ma non alle sirene.


...All’attualità. Ma con quale spirito agire?

Invece di calcolare la globalità con tutta la sua estetica, occorre considerare le volontà che ci sono dietro (lo sanno tutti). Bisogna vedere le cose dentro. Sapere quello che possiamo e non possiamo fare. Credo che Mondrian sia stato un pittore straordinario, però non è nato in Spagna. La sua casa non poteva essere lì, dove c’è tutta un’altra storia. Non puoi dire che i pittori spagnoli non sono moderni perché non sono Mondrian. Mondrian è sempre un grandissimo esponente del pensiero protestante. In passato abbiamo avuto degli artisti, tipo Caravaggio, che non sono nati nella Controriforma e l’hanno rappresentata. E non si possono ignorare nella modernità, perché si ignorerebbe una parte della logica.

 

Allora l’aspetto visivo è una conseguenza.

La visione nasce da una serie di motivi. Poi ci sono le aperture che danno la volontà linguistica. La modernità insegna questo; non è una cosa astratta, non è modernismo. Deriva da precise ragioni e diventa internazionale. Se hai coltivato l’autonomia, viene automaticamente. Se non sei rappresentativo a livello della città, non puoi essere internazionale, perché non sai cosa rappresenti. L’internazionalismo non nasce così, ma per delle intese, delle analisi, degli amori, delle attrazioni straordinarie e folli. Questo vuol dire libertà e consistenza del linguaggio pittorico. Se no aspettiamo che un curatore o un altro metta insieme un teatrino insensato.

 

L’internazionalismo, quindi, non sorge per imposizione di volontà, ma da proprie convinzioni.

Io sono internazionalista per nascita. I problemi derivano dal tessuto in cui si vive, che non si può dimenticare. Ieri ricordavo che il mio amico Müller ha scritto che i morti sono il futuro. E vorrei, ormai da anziano, che i giovani ascoltino quanto Müller ha detto.

 

Entriamo nel tuo cono d’ombra... Spesso rievochi le qualità di Masaccio e Caravaggio. Quali stimoli hai avuto da loro?

La mia è stata la scoperta di chi è venuto da fuori, tempo fa.

 

Certi riferimenti, fatti da te, possono sembrare strani, se non impropri.

Non sono strani. Questi due artisti, che danno indicazioni di fondo, sono ideologici. Capisco che l’ideologia è completamente demodé ma, se si vuole vedere la realtà, ci sono Masaccio, che è l’inventore del Rinascimento, e Caravaggio, che scrive i testi più credibili della Controriforma. Tutti e due in conflitto con la situazione del loro tempo.

 

Ma cosa hai appreso da Caravaggio? Cosa si ritrova di lui nel tuo lavoro così distante?

Non è della maniera di Caravaggio che si discute, ma delle ombre.

 

Alludi alla presa di coscienza della realtà?

…Della realtà e della presenza determinante degli antichi.

 

Quando introduci nel quadro elementi reali, vai oltre. Ma cosa c’è dietro?

Non è solo l’uscita dal quadro che mi interessa. Quello che rimane a me sono le ombre della cultura degli ombrosi. Tornando a Mondrian - che amo moltissimo - lì c’é il colore bianco, la chiarezza della superficie, ma non ci sono le ombre, perché nel suo territorio non sono mai esistite. Questa è una diversità: la sposi o non la sposi. Siamo cresciuti tutti nel mito della modernità e va benissimo, però rimane il vincolo territoriale perché effettivamente c’è questa ombrosità che aspetta di diventare modernità.

 

In senso vero e profondo che sfugge a chi si ferma in superficie...

In senso espansivo, come ragione di fondo. Se uno accetta l’ombrosità, scopre che racchiude una potenza enorme. Naturalmente si crea un contrasto per come sono le pitture oggi. Questo no iniziale, di fronte alla piattezza che si vive, forse crea un reale futuro all’artista, all’uomo creativo. Poi bisogna viverlo, e vivere i fenomeni immaginari è sempre drammatico, però accettiamo la drammaticità come un bel pomeriggio.

 

A parte le intenzioni, resta il fatto che un’arte così concepita può sembrare aristocratica, fatta per gli specialisti.

No. La mia opera è di origine popolare e non ha nessuna specialità. Io parlo per la gente. Anche artisti precedenti come Fontana e Burri, quelli degli anni Quaranta, usciti come linguaggio, mostrano che esiste un fattore alto, ma di origine popolare. Bisogna riscoprire la verticalità; rinunciare alla facilità che offre l’orizzontalità.

 

D’accordo, i materiali e gli elementi che utilizzi sono reali, ma non è facile per chi ha un’idea statica della pittura cogliere il concetto, il senso dell’opera. Non dico che bisogna limitare l’atto creativo, però può essere necessario un avviamento alla lettura dell’opera non descrittiva e storicizzata. Inoltre, se non si capisce il senso dei tuoi apprezzamenti su certa pittura del passato, il tuo prodotto trasgressivo disorienta.

Prima dicevi che le ideologie sono entrate in crisi. È vero, la rigidità di quelle politiche ha provocato danni, ma le motivazioni degli artisti sulle loro visioni ideali non sono inutili, possono stimolare la riflessione. Sono certo che l’ideologia non toglie autonomia all’opera, anzi, la rafforza. Con molta ideologia il prodotto artistico può appesantirsi, ma l’assenza può renderlo estetizzante.

Lo avevo letto in una rivista femminile che hanno anche i barbieri… [sorride].

Avere un’ideologia vuol dire anche fare un discorso preciso; creare una differenza in questo panorama del “vogliamoci bene” che mostra solamente debolezza.

 

Forse si è fuori moda grazie... a quanti praticano l’improvvisazione, l’esteriorità.

Non dico che bisogna seguire la moda; si deve dire no, ma non per sposare la negatività. È necessario trovare la positività e fare un discorso comprensibile.

 

Il che significa assumere una posizione responsabile verso il sociale.

Anche, ma per quanto di sociale non è. Mi dicevi di Documenta... Sono almeno cinque volte che fanno cose sociali: c’è la femminista che fa il femminismo e così via. Ci dovrebbe essere qualcosa di più ampio che permette all’artista di diventare realmente il protagonista e non essere manomesso per delle ragioni che non si spiegano, ignote.

 

Intendi ragioni critiche, mercantili?

Ecco, le ragioni mercantili fanno parte di una politica; non il mercantilismo che di per sé non è un valore. Diciamo la verità, a tutti piace il denaro. Non si deve fare il moralismo spicciolo. Ma per denaro non si deve essere disposti a dare una parte consistente di sé, pure se qualche piccola deviazione l’abbiamo fatta tutti.

Pensando ai giovani che devono strutturare un discorso, non si può abbandonare quello dell’arte in Occidente, anche se c’è tutto il mondo, perché ciò che ha origine dalla critica verso quello che si dipinge nasce nell’Europa occidentale.

 

Ascoltandoti mi accorgo che affermi gli stessi principi di  un tempo...

M. C.: Non è invecchiato neanche un po’.

 

Sei cambiato nel senso che al tempo della contestazione giovanile eri taciturno; adesso sei più esplicito e socievole. In questi anni hai fatto sempre più uso della parola. Il diverso atteggiamento è indotto dall’esigenza di integrare l’opera, di compiere un’ampia azione verso l’esterno o di evitare errate interpretazioni?

Dal piacere.

M. C.: …Anche per chiarire e per passione.

 

…La passione che aiuta la creatività.

Io sono un idealista; ho delle passioni.

 

Sei anche un gran lavoratore. Nel 1997 mi aveva colpito la mostra di Colonia per l’inaugurazione di “Halle Kalk”, l’enorme ex fabbrica, sezione staccata del Museo Ludwig. Mi domandavo come avessi potuto dominare tutto quello spazio. Forse è stato uno dei tuoi interventi più vasti.

Ne ho avuti molti altri, per esempio, a Bordeaux.

M. C.: Fra qualche giorno andremo a Jaffa, in Israel, per una mostra in uno spazio lungo il porto. Sarà un bel lavoro!

 

Certe installazioni comportano un impegno non indifferente anche per non essere ripetitivo.

Ripetitivo no, ma bisogna pensare a come io e quelli della mia generazione vediamo lo spazio. Una volta usciti dal quadro, gestire uno spazio così diventa anche un’indicazione. L’abbiamo fatto sempre, anche negli anni Sessanta.

 

Ci sono luoghi ideali che ti consentirebbero di dare sfogo a potenzialità inespresse?

Ho esposto anche in un piccolo albergo di Roma; non vuol dire. Ci vogliono la disponibilità, l’apertura, l’indicazione poetica (ma in senso reale, non idilliaco) che ti portano verso lo spazio e ti fanno mantenere il ritmo e l’intensità. Noi abbiamo lavorato anche nelle chiese, nei luoghi pubblici. Un quintale di carbone non è fatto per una camera da letto e non posso sperare che qualcuno lo prenda per dormirci insieme.

 

Programmi l’opera prima o nasce sul posto?

Si coltiva prima, ma non si disegna.

 

In corso d’opera fai anche delle modifiche sostanziali?

Però, quando hai un’idea...

 

Si forma e si perfeziona nel fare?

Con Franca parlavamo di quello che ci attrae di certa pittura americana, di Pollock o di Franz Kline. Data l’unicità del gesto di fronte all’ampiezza dello spazio, non puoi tornare indietro per rimodellarlo.

 

L’immediatezza non è come l’improvvisazione che necessita di essere manipolata.

Non possono esserci ripensamenti.

 

L’esperienza quanto ti ha favorito nei lavori di oggi?

L’aspetto principale sta nel dire la verità. L’esecuzione è rapida, ma non da adesso. Van Gogh dipingeva due quadri al giorno. Il Naturalismo ha contrastato l’idea della rapidità, ma Les demoiselles d’Avignon, che sono state dipinte una volta alla settimana, hanno segnato il mondo. La bravura del pittore non consiste solamente nel fare pittura in una maniera o in un’altra, ma nel riuscire a ritrovare la centralità dell’immagine.

 

In passato ti sei soffermato sul concetto della centralità dell’arte. Cosa volevi intendere esattamente?

Pensavo alla nostra condizione in Italia ormai straaccettata. Non bisogna dimenticare che Raffaello è sepolto al Pantheon insieme con i re d’Italia e questa è una indicazione. Lì non c’è un letterato, ma un pittore, perché i dipinti sono il testo fondamentale della cultura italiana. Lo vedi in tutti i musei. È la pittura che conta realmente. Può essere più o meno positivo, non lo so, ma è così. Altri paesi, per esempio l’Irlanda, hanno dei grandi letterati, ma non dei grandi pittori.

 

Quindi “l’arte per l’arte”, ma non nel senso puramente linguistico.

Io non capisco questa cosa. Se l’arte è per l’arte dovrebbe essere immobile, invece bisogna operare contro l’immobilismo.

 

A proposito della Biennale di Venezia Storr ha parlato di emozioni che si ricevono anche dagli artisti autoreferenziali del Padiglione Centrale. Erano presenze rispettabili, ma non davano forti emozioni.

Ma perché stanno girando su quello che noi abbiamo detto per anni, che il concettuale aveva appiattito il territorio e che, se si toglie l’emozione, l’opera si impoverisce, diventa un calcolo di intelligenza.

 

Mi riferivo all’aspetto formale, al linguaggio astratto-minimalista d’un Kelly, ad esempio.

Qui, però, bisogna scoprire il perché del primo quadrato e quello che è dietro. La mia generazione ha fatto molte cose con questi artisti di grandissimo livello.

 

Indubbiamente Sol LeWitt e altri della sua area hanno dato un impulso fondamentale all’avanzamento dell’arte.

Certo, ed hanno disegnato una visione dell’America diversa da quella della Pop Art con la sua figurazione consumistica.

 

Erano artisti abbastanza radicali.

…Completamente diversi. È stata una bella stagione e una bella ragione di essere in questo dialogo largo, atlantico.

 

Esprimevano una differente individualità; il loro lavoro non richiedeva l’interpretazione critica.

L’interpretazione critica era un’altra: togliere all’arte molte delle cose descrittive.

 

Si avvicinavano all’oggettività del design.

Interpretavano un’America in maniera estremamente differente. Pop è popolare, ma il concetto è anche nel realismo sovietico; mentre Malevic rimane una figura straordinaria che riporta il resto della Russia al Medioevo. È un dialogo che sembra segreto, ma riguarda la fisionomia in senso generale, che ha sempre un fondamento popolare. Per me tutta l’arte deve averlo, il resto non conta.

 

Ora, se sei d’accordo, riprendiamo la rotta… con l’operazione di Pesaro appena ultimata.

Il lavoro su Li Marinari è come un gesto. Non è descrittivo; è affettivo verso Rossini ed evocativo. Tutti siamo persone di mare e mi è piaciuto molto occuparmene.

 

Ci sono anche la tua cultura, le tue memorie.

Certo, tra l’altro sono figlio di marinaio.

 

Mi tornano alla mente le vele proposte alla Biennale di Venezia del 1993;

anche il  Viaggio in barca per Lucio Amelio, che ha portato l’arte contemporanea a Napoli promuovendo importanti iniziative, tra cui l’incontro Beuys-Warhol, campioni della cultura europea e americana.

Quella barca con me sopra andò nel Golfo di Napoli partendo da Pozzuoli. Era per l’apertura della Galleria di Lucio in Piazza dei Martiri.

C’erano delle vele anche alla personale dell’anno scorso presso la nuova sede della Fondazione Arnaldo Pomodoro di Milano.

 

Ho visto che hai imbavagliato di nero gli strumenti. A cosa volevi alludere?

Il suono riguarda una morte. A Colonia avevo fatto un pozzo davanti a una chiesa che era pieno di campane. Le campane di solito sono in alto; nel pozzo erano in basso...

 

     La tematica data eccita il tuo immaginario o lo frena?

Penso che un lavoro nasca da un altro lavoro; dalla conclusione del precedente, non da una tematica. Non c’è discontinuità nelle faccende linguistiche di un artista. È una cosa che si trasporta e sempre con la mania del monologo che diventa dialogo.

 

Alziamo le vele per approdare in altri lidi ormai lontani nel tempo. Riguardo ai soggetti musicali ho presente i tuoi quadri integrati da strumenti e da interpreti. Ricordo anche la tua partitura che vidi da Staeck ad Heidelberg al tempo di Beuys. Era una pagina dell’Elettra di Strauss con le ditate degli esecutori...  

Per quell’opera feci anche le scene. In un altro lavoro a Palazzo Taverna, in ogni stanza c’era un flautista e tutti insieme suonavano lo stesso pezzo. Era bellissimo. Poi ho fatto l’opera con il violoncello, quella con la ballerina che era a Documenta di Kassel tanti anni fa. La Tarantella di Strawinski l’ho fatta quando è nato mio figlio. Si suonava e ballava...

 

Erano lavori innovativi. Anche se c’era un’accattivante armonia cromatica e poetica, risultavano scioccanti non solo per chi era abituato a vedere la pittura tradizionale.

Sì, io sono innovativo, ma la conservazione non mi disgusta.

 

Resta vivo il tuo interesse per il teatro?

Per me è un amore costante. Non è una volontà, però sono più di trent’anni che lavoro per il teatro.

 

Come vedi la spettacolarità che può rappresentare un plus-valore per l’opera e accrescere la sua comunicazione?

Per me lo spettacolo non è importante. Penso alla tragedia greca e alle opere tragiche shakesperiane che non sono spettacolo. Non bisogna dimenticare che i lavori di Shakespeare coincidono con la nascita della lingua inglese (prima si scriveva in latino). È un teatro che rivoluziona il senso linguistico dell’Inghilterra. Anche la tragedia è una forma iniziatica di rilievo che prende uso: c’è il divino, ma anche il laico; il tragico, ma anche uno spaccato del potere.

 

La tragedia, più che un fatto estetico, esprimeva intensi contenuti.

Ecco, tu forse devi preoccuparti… dell’eccessiva profondità del lavoro.

Adesso cerco di liberarmi dell’eccesso. Vado dappertutto; trovo altri argomenti e li tratto.

 

Delle tue opere si può parlare di costanti più o meno strutturali?

Tu conosci qualche lavoro che non è così? La storia di un lavoro è anche la storia di un uomo e così ci sono dei passaggi; c’è la volontà di viaggio continuo verso terre ignote, però si finisce sempre a Itaca…

A parte il valore simbolico e la densità del messaggio espressi dall’opera, dagli anni Sessanta hai innovato il medium pittorico. Nonostante l’interferenza, oggi diffusa, di materiali extrapittorici e le contaminazioni disciplinari, con la nuova identità essa mantiene l’autorevolezza di un tempo? Consideri ormai trasformata la pittura intesa come quadro, come linguaggio specifico?

Io non credo che la pittura sia superata. Mi considero un pittore che non vuole cambiarla. Questa è la mia logica e l’affermo.

 

Ciò conferma che hai sempre dato una valenza pittorica al lavoro.

Bisogna parlare delle diversità che ci sono tra un quadro da cavalletto e un altro tipo di pittura, compresa quella di Pollock. Non vedo la realtà del tonale, perché indica una pittura che sembra acquistare distanza. Da quando ho cominciato a lavorare, ho pensato che il problema tonale fosse risolto. È la tonalità che ha creato i presupposti per la poesia crepuscolare. Per quel che mi riguarda, non mi ha mai affascinato perché non esiste più quella borghesia che ha sostenuto la logica della tonalità. Anche ne Les demoiselles d’Avignon ci sono un davanti e un dietro, però sono presi nella loro drammaticità, non come risultato.

 

La pittura così intesa non ha perso credibilità!?

Io penso che ci sia una continuità. Permette di espanderti e di avere una grandissima velocità di esecuzione che fa aumentare l’attrazione verso altro e fisicamente puoi spostarti in uno spazio diverso. A volte è una grande novità: ti rende presente in una realtà diversa. E questo non puoi assolutamente abbandonarlo perché ti riguarda.

 

Poi c’è il suo valore comunicativo...

Comunicativo e anche di volontà. Non vedo perché bisogna farla finita con questo mondo di libertà.

 

La competizione è stimolante o condizionante per la propria libertà espressiva?

Non ho un’idea di competizione, però certe cose mi appartengono. È giusto accompagnare la propria esperienza espansiva con una affermazione, una vittoria. Naturalmente sostengo la mia produzione, ma all’inizio non penso a essere competitivo.

 

La realtà in divenire influisce in qualche modo sull’avanzamento del tuo lavoro?

Non so quanto sia plasmata la nostra realtà. Cosa vuol dire reale? Bisogna saper cercare qualche pezzo di terra per trovare la realtà, altrimenti è sfuggente. Si può aprire anche una rivista di moda e lì, effettivamente, c’è una realtà, però non di una profondità che a te sembra erotica.

 

Attualmente sei portato a instaurare un rapporto dialettico con il reale o ad assumere una posizione più distaccata?

Per un uomo come me, che compone la realtà, è falso dire che essa non è l’economia. C’è anche quella, però in misura ridotta rispetto alla realtà di fondo. E c’è anche tutto il resto che è bello: il mangiare, le donne… Poi c’è una realtà diversa che a volte mi preoccupa e mi spinge a indagare di più. La realtà è un enorme pacchetto e bisogna condividerla per forza. A me interessa come si realizza visivamente.

 

La tua forte soggettività ti porta a disapprovare gli schemi del sistema culturale e socio-politico?

Io appartengo a una generazione che in passato ha avuto una sensibilità politica. Esiste un insieme di cose; é come un fiume che cammina: si sa da dove viene e dove va a finire; è questa la realtà dei fiumi.

 

Mi sembra che oggi ci sia poco senso della storia.

Non lo so. Per me l’appartenenza conta.

 

Intorno si guarda oltre... Come vedi l’arte digitale, mediale?

Non saprei. Abbiamo dei computer in casa, ma io non so nemmeno cosa sono [sorride]. In vita mia non ho mai fatto una fotografia, neanche in famiglia. Dunque, capisci che non posso parlare di arte digitale.

 

Con questa affermazione la tua potrebbe sembrare un’arte manuale...

No, non l’ho mai fatta.


Tra l’altro parli di storia, mostri affezione per il passato...

Per me la storia è il rimanente che si sposta nel futuro. Non vuol dire che mi metto a dipingere come Caravaggio, però questo mi dà la possibilità di avere una distanza critica con il mondo; mi permette di valutare, anche se c’è un coinvolgimento morale con le faccende quotidiane. Succede da sempre; da quando ero ragazzo. L’Italia è un osservatorio privilegiato, grazie anche a Caravaggio e alla Controriforma.

 

L’inclinazione viene pure dalle tue origini?

Ma in Grecia non c’era la Controriforma che è tutta un’acquisizione italiana. La nascita è una cosa, un fatto naturale; la rinascita un’altra, indica la volontà critica e ideologica.

 

Diciamo che hai mantenuto con la Grecia un legame mnemonico e sentimentale.

Platone non può essere rivendicato solo dalla Grecia, è un modo di essere. Il labirinto è nato lì, ma con la sua simbologia ha investito il mondo.

 

Ti resta l’orgoglio di essere di quella terra?

Verso la Grecia ho un grandissimo amore e mi commuove anche, però non è quello che conta per me. Contano queste realtà, questi obblighi, questi ostacoli. L’artista è un uomo che ha creato degli obblighi in una logica molto visualizzata.

 

Dal percorso creativo è possibile individuare alcuni momenti decisivi per lo sviluppo del tuo discorso?

Ho fatto una mostra a Edimburgo e ce n’era anche una di Bacon dove si vedeva cosa è questo pittore. C’è sempre l’uomo al centro, dentro la prospettiva. Non credo che egli possa cambiare qualche cosa perché il suo futuro è il suo passato. Non esiste un’evoluzione di tipo darwiniano nella sua pittura. Non penso mai al darwinismo, alle novità, ma all’affermazione fino alla fine di quel passato che mi permette di avere una logica e di pretendere di fronte a tutti, di fronte alla modernità. Non c’è nient’altro che questo.

 

...Una modernità consapevole del passato… In altre parole, non sorge al di fuori della storia, né può essere un’invenzione della moda. È una derivazione di momenti evolutivi.

La modernità vera nasce da una maturazione, non è demagogia; è radicalità; un estremismo del passato, non moda. È quello che ti rimane, non solo nel cervello ma nel cuore.

 

Secondo te, stiamo attraversando una fase di seria decadenza?

Come italiani o come mondo?

 

Soprattutto come italiani.

Sono sicuro che l’Italia sarà nuova quando il pensiero, che è nato inizialmente da certi dipinti, darà l’indicazione.

 

Ma cambiare un sistema e rifondare una civiltà non sono cose semplici.

La civiltà c’è.

 

Però è distratta, dirottata.

C’è, ma non corre in superficie. Nel fondo si trova un’identità fortissima.

 

Pensi che si potrebbe ridestare?

Non c’è l’obbligo di grandi sforzi, perché esiste e tu vedi che in certe cose c’è la forza. Come si può dire che non c’è forza nel Cristo di Mantegna!? Ma si dice: “Mantegna è del Quattrocento!”. Tre o quattro generazioni non sono nulla.

 

Per istinto di conservazione si rischia anche di tornare indietro...

Non si può tornare a quelle forme. Si può solo attingere. Il tornare è negativo, comporta una perdita; mentre tenere conto di quel faro luminoso indica una coscienza.

 

Un ultimo salto nel passato-presente. Non si vedono spesso tue opere grafiche. Che ruolo attribuisci al disegno? Nel 1984, proprio alla Galleria Mancini, attuasti una mostra con ‘rare’ opere su carta, progetti per i tuoi lavori teatrali.

Gli antichi non disegnavano. Si disegnava nel Rinascimento perché il modello era l’antico. In realtà si lavorava direttamente sul dipinto senza disegni preparatori.

 

Il disegno cosa rappresenta per te?

Quello che dice la parola: “Ho il disegno di occupare questo territorio”...

 

Quand’è che l’opera può essere considerata veramente ‘presente’?

Quando la gente si emoziona.

 

Cosa ti ha dato la pratica dell’insegnamento più dell’esperienza artistica?

È stato un periodo molto felice, ma avevo un interprete.

 

Ti rifiuti di imparare le lingue?

Non mi sono mai sforzato; non mi interessa. Parlo italiano e fuori lo parlano in pochi, ma anche questa per me è una logica. Parlare una lingua non è un esercizio linguistico; si tratta di riprendere quella logica per poterla esporre agli altri. Però non mi è mai servito di parlare altre lingue: c’è Michelle che le conosce. Se mi applico, ci riesco, ma non voglio.

 

Ti senti un maestro?

No, sono uno studente.

 

Con la voglia di apprendere?

Apprendere, non affermare.

 

Grazie, Gianni! Quando ci frequentavamo eri meno generoso..., più duro...

Penso che la vera durezza sia la dolcezza. Ho sempre desiderato essere dolce...

A cura di Luciano Marucci

[«Juliet» (Trieste), n. 135, dicembre 2007-gennaio 2008, pp. 40-45. Il servizio comprende 6 immagini]

 

 

VERSIONE PDF (630 KB)