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La tua intuizione plastica per un ritorno alla scultura in termini nuovi sembra nata da un atteggiamento di rivalsa verso un'arte oggettuale fatta di fisicità.

La parola “ritorno” mi fa sempre un po' rabbrividire. Io compio un viaggio: ho vissuto in pieno, come te, gli anni ‘70, per cui... Il mio è un atteggia­mento rivolto alla plasticità che ho cercato di distruggere usando la pit­tura all'interno della scultura. Penso di aver messo dentro il mio lavoro qualcosa di diverso e di nuovo. Non spetta a me dare giudizi.


In definitiva, cerchi di soggettivare gli insegnamenti prove­nienti da più linguaggi fra loro anche stridenti, ma funzionali alla tua poetica, facendoli interagire per la soluzione di pro­blemi formali.

Io credo di essere un individuo complesso che reagisce... Nella pratica quo­tidiana del mio lavoro esiste un sistema: cerco di fare in modo che il caso accada in continuazione attraverso tanti piccoli stratagemmi e meccani­smi; di vedere se le cose meravigliano soprattutto me, perché, se così è, probabilmente meravigliano anche gli altri. La mia poetica è in que­sto continuo accadere delle cose. Io non so se metto in pratica degli inse­gnamenti; so, invece, che uso tutti i linguaggi...


Ti consideri un artista che ha la vocazione storica di dare il giusto spazio... alla scultura, di scrivere un nuovo statuto per la sua sopravvivenza?

Io non voglio dare spazio: opero all'interno, sono il frutto del mio tempo e delle mie esperienze e, in questo modo, cerco una terza possibilità, una via diversa usando linguaggi diversi.

 

In un certo periodo hai assunto un linguaggio anche per valoriz­zarne e cancellarne un altro. In questo doppio processo, dal lato formale, la pittura diventava oggetto e la scultura si bidimen­sionalizzava.

Credo di avere usato, almeno nel mio lavoro iniziale, le due possibilità in un modo assolutamente complementare, cercando di trovarne una terza. Io utilizzavo i due linguaggi in modo paritetico; due livelli diretti allo stesso senso; due tipi di percezione completamente diversi. Queste considerazioni valgono per il mio lavoro dei gessi perché nelle opere più recenti - nei legni - c'è un rapporto più diretto con lo spazio .

 

Ma la tua è scultura o anti-scultura?

Mi chiedi di dare definizioni... I miei lavori sono percorsi, sono te­stimonianze.

 

L'itinerario delle tue investigazioni è fatto di progressioni con­tinue o anche di soste e di arretramenti?

Il percorso è molto complesso, difficile, specifico ed è fatto di singoli momenti. Può capitare che in certi periodi non faccio niente: rifletto, leggo, mi dedico ad altre cose, però c'è in me continuamente un filo rosso, una lampadina accesa in cui la tensione è sempre la stessa. Quindi, ci sono fasi di stasi, che sono di assorbimento e di inebriamento, e periodi di im­mersione totale nel lavoro. Non si può tracciare una linea costante, defini­tiva. Io sono uno dei casi di profonda incostanza. Credo che nella vita degli artisti ci siano anche dei momenti di arretramento. Perché no, se servono per andare avanti..?

 

Oggi prosegui le indagini per poter dire ciò che non hai ancora comunicato o per raccontare meglio il tuo mondo?

Continuo a lavorare per creare un rapporto vero con le cose. Opero con la ten­sione e l'onestà di chi vuol raggiungere un determinato obiettivo.

 

In genere, da dove proviene l'immagine?

Lo stimolo può derivare da tanti elementi, ma diciamo che nasce soprattutto da un rapporto con se stessi, da un certo tipo di meditazione, di esperienza vissuta, di immagini mnemoniche che conservo, filtro e cerco poi di ritrovare. È come il ricongiungimento a una idea percepita, ma non visualizzata. In sostanza, cerco di creare un conflitto visivo attraverso tanti meccanismi: metto insieme acqua e fuoco, non in modo troppo spettacolare, ma misterioso.

 

Dai gessi ai legni, all'uso del piombo, all'associazione di più materiali... Il massimo risultato lo hai già ottenuto o è ancora nelle tue aspirazioni?

Adesso, più che mai, è nelle mie aspirazioni. Le cose migliori le dovrò fare. Almeno lo spero.

 

La purezza e l'essenzialità sono frutto di un processo di sottra­zione tormentato?

In genere, sì. Arrivare all'essenzialità è sempre molto difficile, perché è come camminare su una corda tesa. Devi eliminare tutto il superfluo. È come avere a disposizione solo 5 parole per poter raccontare la propria vita.

 

Per portare avanti il lavoro recuperi il mito e il primario.

Esprimi dei giudizi, per cui dovrei rettificare certe cose che non condivido e precisarne altre. Quando tu dici che recupero il mito è vero, ma non è che il mio sia un recupero: io vivo nel mito in modo pieno e non anti-storico. Il primario credo sia una verità importante, essenziale, in una società fatta di superfluo... Per me trovare qualcosa di fondamentale è una delle motivazioni che mi spingono ad andare avanti nel lavoro.

 

La necessità di penetrare nel mondo, esprime anche il bisogno di investire il presente con una ragione morale.

Io ho bisogno di entrare nel mondo con un modello assolutamente personale, perché nel mio lavoro tendo a una moralità ferrea. C'è una intenzionalità ben precisata e continua nel tempo.

 

In tale atteggiamento c'è l'illusione di recuperare i valori persi o il compiacimento di trasformare in oggetto estetico la tua idea-ideale?

Cerco solo di scoprire nel quotidiano, giorno per giorno, il mio rapporto con il mondo che mi circonda e con le persone a me vicine. In ogni caso, non c'è nel mio atteggiamento verso il lavoro un'idea di recupero di valori persi; c'è, piuttosto, una indagine per cercare di trovare valori nuovi.

 

Tendi anche alla massima evocazione...

Io uso degli elementi primari, degli archetipi che sono tessuti insieme a una serie intricata di cause, quali i rapporti spaziali, temporali, cromatici, virtuali che l'opera crea con me stesso e con lo spazio che la circonda e, dunque, anche con lo spettatore che la guarda.

 

In giro noti conformismo culturale?

Abbastanza, però, non so quale sia la mia capacità di vedere. Io mi pongo sempre il problema di riuscire a percepire l'intimità delle cose. Questo mi sembra un momento che privilegia soprattutto l' “apparenza” piuttosto che l' “approfondimento”. Non mi pare che ci siano stimoli nuovi, cose che rie­scano a coinvolgere totalmente il mondo dell'arte. Però può darsi che que­sto sia solo il mio punto di vista.

 

L'arte avrebbe l'autorità per imporsi nel contesto reale o le con­viene seguire la strada solitaria della diversità, del dissenso silenzioso?

In fondo, dell'arte si può benissimo fare a meno. Non c'è un attimo di vita che valga tutta l'opera d'arte e nessuno di noi darebbe qualcosa di sé per un attimo di arte in più. Essa è fondamentale, invece, per ragioni diverse: più intime, più culturali, di proiezione mitologica, metafisica dell'uomo. Non è così tangibile: è un modo di vivere, di dare dei valori, in cui c'è tutto l'uomo.

A cura di Luciano Marucci

[«Juliet» (Trieste) , Trieste, n. 59, ottobre-novembre 1992, p. 40]

 

Per l’intervista integrale vai al PDF (142 KB) nella sezione “Viaggi nell’arte” / ‘Rotte inedite’-Pubblicazioni mancate