Home arrow Viaggi nell'arte arrow Incontri arrow Luigi Carboni. Nuove geografie della pittura (2004)
LUIGI CARBONI nuove geografie della pittura PDF Stampa
Ogni tanto si torna a parlare della fine della “pittura”, ma essa, pur avendo attraversato momenti di profonda crisi, non è mai scomparsa dal panorama delle arti visive. Anzi, resta il medium più praticato, anche se spesso linguisticamente inadeguato. Resiste non solo per merito della Transavanguardia che negli anni Ottanta l’aveva rilegittimata mitizzandola…; non tanto per le ambigue rivisitazioni iperrealistiche e postmoderne; bensì per opera di artisti che hanno saputo scoprirne altre qualità, riproponendola in forme inedite o trasgressive; pur nella salvaguardia dei valori atemporali e del potere comunicativo.

Certamente ha cessato di vivere e non può resuscitare la pittura acritica e retorica che replica il passato; quella imitativa e rappresentativa, semplicemente decorativa o contemplativa, basata sulla statica bidimensionalità e il virtuosismo, orgogliosa dell’accademismo e invaghita della tradizione consapevole di avere consensi dal mercato. L’altra pittura, ancora capace di attrarre lo sguardo, proviene dalla progettualità e dai procedimenti non convenzionali; dialettizza con la contemporaneità; ingloba materiali eterogenei, oppure esce dalla cornice dorata per farsi contaminare da altre discipline o, addirittura, per essere metabolizzata in lavori tridimensionali, plurisensoriali, installativi e perfino in azioni performantiche e in mimetiche realizzazioni virtuali ottenute con il video e il pennello digitale.

Poco male se in questo percorso evolutivo l’oggetto pittorico va perdendo la sua fisicità, meno importante delle peculiarità intangibili e dell’intensità espressiva. Per rendersene conto è sufficiente ricordare operatori di diversa estrazione che sono riusciti ad esaltare la Pittura stando dentro e fuori la sua specificità: da Fontana a Burri, Castellani, Manzoni, Rauschenberg, Beuys, LeWitt, Kiefer, Kounellis, Paolini, Merz, Mondino, Pirri, Schnabel, Viola, fino a Beecroft e Dynys.

Dunque, quando il ‘quadro’ non ha più nulla da dire e subentra la noia del manierismo o sembra espropriato da linguaggi alternativi (fotografia, environment, Arte Povera e Concettuale, Body Art, tecnologie dematerializzanti…), spuntano dei creativi che, grazie alle loro ricerche legate alla realtà in divenire, riescono a dimostrare che il mezzo pittorico può mettere in campo nuove energie e restare vitale anche trasferendo in dimensioni diverse certe insostituibili componenti. La sfida, ovviamente, è ardua e può essere vinta solo con geniali intuizioni, lucidità di pensiero, grande sensibilità. Ben pochi, infatti, sono gli operatori competitivi, in grado di assicurare in questo senso continuità alle esperienze storiche e autorevolezza al prodotto creativo.

In fondo l’arte è il territorio del possibile e della libertà interiore ed estetica. Ha bisogno di stimoli e analisi, non di censure.

Andavo esternando queste considerazioni a Luigi Carboni, un altro artista che ha gettato un ponte tra passato e presente per far sopravvivere la vera identità della “pittura” in altre geografie…, e, inevitabilmente, siamo giunti a parlare del suo modo di rapportarsi con essa.

 

Carboni, cosa ti spinge ancora oggi a fare pittura?

L’arte contemporanea produce incessantemente movimenti e tendenze; ci ha abituati a vedere opere con materiali e tecniche le più svariate: dagli elementi naturali all’ipertecnologia, dall’oggetto di rifiuto a quello industriale, dalla performance all’installazione. Queste pratiche, che inizialmente si presentavano come atto ribelle, ora sono pienamente istituzionalizzate. Le opere, che oggi giocano la carte della trasgressione, il più delle volte svolgono un ruolo ambiguo: “eccitando e contemporaneamente mettendo le pantofole agli eccitati”. Fatte queste considerazioni, posso rispondere alla tua domanda confermando che la “pittura”, dopo le neoavanguardie, il modernismo e le sperimentazioni degli anni ’70, può rivendicare una propria legittimità, avendo capacità specifiche di scoperta. Da apprendista pittore ho attraversato le esperienze delle avanguardie di filiazione in filiazione, di eredità in eredità; ma qualcosa andava perduto: la manualità. La mancanza d’uso comportava l’atrofizzazione e la scomparsa dell’organo utile. Questo voleva dire perdere una parte d’identità. Da qui il desiderio di indagare, con perizia e puntualità, il materiale della “pittura”, ben sapendo che il presente è la nostra unica realtà e che la pittura contemporanea di un certo significato è essenzialmente concettuale.

Di fronte a tutto ciò che è in me, ordine é nelle mie opere; alle mie spalle tutto il resto è scompiglio.

 

…È il mezzo più congeniale a sviluppare il tuo concetto di bellezza?

Io condivido l’esigenza di una pittura di qualità, di “buona fattura”, sicura dei propri mezzi, con una rinnovata attenzione per la bellezza. L’idea di una eccezionale bellezza è stata sempre uno dei motivi fondanti dell’arte. La mia pittura non toglie, non ricerca la sterilizzazione dell’opera, non opta per la strategia della sparizione, anzi dà libero sfogo al segno-disegno, al colore e al decoro. La decorazione coincide, nel suo senso originario, con il bello (nella lingua latina decorare voleva dire “rendere prezioso”, “eccellente” e “autentico” qualcosa). Se il segno, come decoro, occupa in modo temerario il linguaggio nell’esercizio del dipingere, contemporaneamente il problema di un’ultima decorazione torna a ridare un senso di permanenza e di sacralità all’opera, scoprendo l’equivoco sulla decorazione stessa: “il decoro è un argomento del reale, forse il segno più spirituale che esiste”. La pittura, quindi, dopo un centinaio d’anni, si può aprire nuovamente alla dimensione irresistibile delle sensazioni inattese del bello, partecipando pienamente alla riabilitazione di un’arte legata alla seduzione e non violenta nei confronti del proprio stile, riqualificando sobriamente il suo spirito aristocratico nel senso dell’“inutile”, uscendo dai moralismi della trasgressione e rompendo con la noia dell’accademia dei mass-media.

L’arte di servire il thé, cinque gesti e sei espressioni, nella cerimonia il ventaglio da visita non serve a niente, ma non lo si dimentica mai.

 

La classicità è sempre attuale?

Nella concezione avanguardista l’eredità era vista come un peso, ma la cultura attuale non ha motivo di rinnegare il passato; al contrario, offre una possibilità di riscoperta in contrasto con il pericolo di ripetere. Il pittore, orfano, deve attraversare la tradizione, come un nuotatore attraversa un fiume. La pratica pittorica parte dalla superficie, per accedere a ciò che sta dietro, mescolando aspetti del passato e del presente e facendoli diventare testimonianza di “verità”: cosa ben fatta, grazia, impudenza, eleganza. Così l’opera si riveste di un ordine classico, dell’ideale della perfezione finita. Ho intrapreso un’azione, individuando un percorso collinare, un viaggio dove le categorie del passato e del presente non sono divise, ma in stato di equilibrio: “un cammino per restare sul posto e riporsi all’inizio”.

Le immagini dei mass-media si rafforzano con lo stesso ritmo con cui si disarmano le immagini dell’arte.

 

Vuoi dire che vanno rispettati determinati canoni?

No, assolutamente. Oggi non vi è uno stile consistente, un modo dominante di osservare l’arte, anzi le posizioni sono diventate multiple, iperattive e simultanee. Osservando i miei dipinti, a seconda delle varie ipotesi o modelli estetici, potrebbero essere identificati come astratti, decorativi o naturalistici. La pittura contemporanea reclama una flessibilità: tra astratto e figurativo, realtà e immaginario tecnologico, forma e finzione, naturale e artificiale; tra superficie “decorativa” e profondità “costruttiva”. Sta costruendo, cioè, una dialettica tra entità opposte, un’unione di contrari che convivono nella loro diversità con tutte le incertezze e le difficoltà. Una pittura di doppi fondi, di ambiguità espressiva, di contraddizione interna, dove classicità e sperimentazione sono il paradosso di una dialettica reciproca e simultanea interna all’opera, attraversata dal senso dell’interrogazione nella rinuncia ad ogni dichiarazione di metodo. È il risultato di un’urgenza; l’urgenza di una società che non pensa più a lungo termine, ma che risolve i problemi di volta in volta. È una pittura concorrenziale o partecipante con quell’immagine del mondo del tutto immediata, dove la demarcazione del “reale” viene continuamente costruita e decostruita.

Il quadro è il territorio della trasgressione. Non avrò da lamentarmi della mia “vuotezza”.

 

Come alleggerisci il carico linguistico della storia?

Un segno calligrafico, una linea spirituale e lirica, un ritmo, una sospensione, una verità, una simulazione sono i tentativi per recuperare i cocci della storia. Ma sono “menzogne”; si tratta di una pittura attraversata dal senso dell’artificio: l’opera è tutta tesa a mettere in relazione l’occhio con le strutture anonime che regolano l’agire e il pensare contemporaneo. La pittura nel suo essere presente non si rivolge solamente al “quadro”, ma individua nello spazio architettonico la giusta estensione del proprio farsi, diventando tridimensionale. Sembianze di cose svelate riportate sulla superficie; segni pulsanti che evidenziano una sospensione, intuendo un pericolo: segni appesi come fucili da caccia impreziositi, che è il modo artistico di nominare. Il segno astratto cerca i territori della rappresentazione, cerca una casa, un corpo. Segni che suggeriscono il reale, con tutta la perizia artigiana, come nella mia opera “Il giardino dei pensieri” del 2002, in cui una fitta rete grafica di piante e foglie copre la superficie della tela fino al limite dell’impenetrabilità: indaga la poetica del giardino (l’uomo continua a cercare e creare giardini per realizzare la sua inappagata brama di un mondo negato), svuotando l’immagine da ogni pregiudizio ideologico. Come nella realtà della fiction, l’opera simula se stessa; in una consapevole assenza di protagonismo suggerisce e non impone. Si passa attraverso il quadro-installazione, la forma e il colore senza legarsi ad alcuni di essi, con distaccata continuità: è sì una pittura realistica, forse pure astratta, ma anche una allegoria di pittura, necessariamente artificiale. Contraddizioni? Certo è un segno dei tempi, forse dovremmo chiederci dove si colloca oggi la nozione di progresso?

L’attitudine a reprimere le pulsioni naturali fa di noi degli esseri raffinati.

 

I cicli tematici quale ricerca favoriscono?

I cicli tematici scaturiscono sempre dalla volontà di andare verso un’altra modalità pittorica, di trovare un nuovo punto di equilibrio dove l’opera non si snoda in un processo lineare, ma piuttosto interagisce continuamente con il proprio passato. Spesso nell’esperienza del viaggio la distanza geografica ne suggeriva una estetica: dai segni arabeschi, a quelli dei caratteri a stampa, dai cerchi concentrici ai decori floreali, dagli ori e argenti alle opere annegate nel bianco e nel nero, dalla poetica del giardino alle recenti mappe geografiche. Le suggestioni della dimensione orientale conosciute nei numerosi viaggi, riqualificano il sentimento della pittura. L’estremo oriente non è servito a suggerire travestimenti, ma ad orientarsi all’interno delle fondamentali esperienze estetiche “occidentali”. Il viaggiare, l’andare ad oriente, non è altro che mantenere le promesse, con tutto il linguaggio, con tutto l’ascolto, con tutto il gesto di un artista occidentale.

L’arte è un desiderio che suscita il piacere nella misura in cui l’anticipa.

 

Le tue motivazioni di fondo sono scaturite pure da un’analisi critica della situazione artistica generale?

Il mondo occidentale, con la fine della guerra fredda, si è appiattito su un’unica idea di mondo, come se fosse lecito parlare di pensiero unico. In nome della globalizzazione del mercato si è teso a confondere la democratizzazione con l’omologazione e l’omologazione con il progresso. Penso, invece, che sia importante non sottovalutare le differenze culturali e artistiche fra le molteplici tradizioni, ricercando l’autonomia sulla base delle proprie radici culturali, senza lasciarsi trascinare a pratiche straniere: l’idea di assoluto è il vero nemico dell’uomo. Il bisogno di conoscere il mondo è oggi superato dal desiderio di sfruttarlo, se non ci sarà una vera riflessione, se gli artisti non troveranno forme cresciute sulle loro radici culturali, l’arte rischierà di diventare un sottoinsieme dell’industria della cultura dello spettacolo. L’arte si trova in uno stato di dubbio esistenziale. Mi auguro che gli artisti cercheranno quello che sembra mancare o essersi perso dell’esperienza culturale del momento, evitando i reality show, i brandelli di vita in diretta e la cronaca dell’evidenza.

Nessuna forma artistica è testimonianza di verità.

 

Puoi addentrarti nel tuo “giardino” e nell’ultimo ciclo legato alle mappe geografiche?

Il concetto di giardino appartiene a tutte le culture, è il poetico luogo della felicità, fuori dal tempo. “Dei sei giorni della creazione uno intero era stato dedicato a creare un giardino”. Sogni e ricordi, desideri e speranze, segreti e utopie, parabole e simboli dell’uomo da sempre si presentano come giardini. Ma il giardino, insieme al bosco, rappresenta quel confine debole e confuso tra verità e simulazione, tra realtà e artificio. “Concertu concorditer dissono”, recita un codice musicale dell’VIII secolo dopo Cristo, “concerto di dissonanze concordi” risulta essere l’istanza dell’opera, un continuo oscillare tra reale e artificio, tra materia e spirito. Le mappe del 2003-2004 (la prima iniziata nel 2002) rappresentano, invece, la volontà di rendere continenti e oceani “geometrie”. La vastità del creato geografico viene costruita attraverso un reticolo fitto di segni ripetitivi ma mai uguali, creando vibrazioni sottili tra primo piano e lontananza, correggendo continuamente la messa a fuoco dell’occhio. Qui la tecnica diventa fatica creativa, linguaggio e contenuto. In un mondo che tende all’omologazione, dipingere il “mondo”, oggi, non è tanto un segno di natura estetica, quanto un atto di natura etica. La questione dell’identità è uno dei grandi temi che la società e l’arte dovranno affrontare. Il ruolo della cultura occidentale, dei suoi valori e le problematiche legate alla convivenza delle diverse civiltà saranno i punti nodali del dibattito dei prossimi anni.

L’arte non supplisce la realtà, ma la amplia come atto di conoscenza; non la copia, non la imita, ma la ripercuote.

 

Cos’è per te l’arte? Perché la fai e come organizzi la giornata di lavoro?

L’arte è uno  stato di necessità, un problema di gerarchie e di urgenze. È il tempo tra l’inizio e la fine, l’equilibrio fra  i pieni e i vuoti: “il cervello non produce solo il pensiero, ma si sforza anche di comprenderlo à la forma non è solo l’idea della poesia, ma proprio in questa è sé medesima”. L’opera è un momento introspettivo necessariamente romantico; alla fine resta l’immagine, sottile e lirica, eterna attrazione: desiderio senza orgasmo.

Un artista fa l’“artista” per proteggere una posizione, per indicare un modo di osservare l’arte, cercando di aggiungere nuovi assiomi estetici.

Il mio modo, leggermente provocatorio e sovversivo, di guardare l’arte attraverso l’idea della bellezza, nello splendore del “decoro”, è il tentativo di conferire spessore pittorico e significato alla decorazione, unico residuo di quella testimonianza che un tempo la rendeva atta ad irradiare sovranità.

Lavoro in provincia, in una piccola città, ai confini dell’impero artistico, facendo dell’emarginazione un punto di forza. L’urgenza di rendere visibile l’opera è l’unico stimolo che giustifica l’andare in studio e passarvi tante ore tutti i giorni. Nessuna fase del mio lavoro è delegabile, quindi, non ho assistenti. L’attitudine riflessiva e l’intenzionalità progettuale sono dettate da una leggera necessità di riordinare il mondo. Scelgo un programma per ogni dipinto, ma l’esito risulta una sorpresa, che sono costretto ad accettare. L’opera mi liquida sempre con un sorriso.

Nella grande casa abitano persone diverse…; in comune hanno l’idea che questa casa va conosciuta a fondo stanza per stanza. I suoi inquilini hanno murato le finestre perché non vogliono più distrarsi a guardare il paesaggio.

A cura di Luciano Marucci

[«Juliet» (Trieste), n. 118, giugno 2004, pp. 32-33; l’intervista in parte pubblicata anche nel catalogo Luigi Carboni, Palazzo Ducale, Sale del Castellare, Urbino, Skira , Milano, 2006, pp. 177-187]

 

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